domenica 15 settembre 2013

Ringraziamenti & Co.

Sono arrivata nel mondo 'letteratura' Granata in modo del tutto casuale poco più di cinque anni fa, ma dal momento che il Caso non esiste... non aggiungo altre farneticazioni oltre a quelle che, nello scorso lustro, ho condiviso in rete.
Ho avuto la fortuna e l'onore di essere stata ospitata su pagine ben più illustri di questa per parlare del Toro, del Toro secondo me, e sono colma di gratitudine.
Quando fortuna ed onore sono diventati onere, ho scelto di rifugiarmi in una casa tutta mia: questa qui.
Siate i benvenuti.
Non so con quale cadenza pubblicherò, so che continuerò a condividere.
Per chi volesse far parte della condivisione... la mia prima pubblicazione è prevista per giovedì 19 settembre alle 13:13.
SFT,
La Silvia

mercoledì 4 settembre 2013

Deviazioni

Pensieri

Era una strada stretta, sinuosa come un serpente, in discesa, da un lato la montagna, dall’altro un dirupo, in fondo alla strada c’era un faro e quello era il nostro obiettivo.
Ne avevamo già visti alcuni e li avevamo raggiunti agevolmente, ma quello, quello più che un faro sembrava la fine del mondo, quando il mondo non era rotondo bensì piatto e, giunti ai bordi del disco, non avremmo potuto fare altro che precipitare giù.
Il mio compagno di viaggio soffriva di vertigini, ne soffriva tanto, eppure ogni faro era una conquista, ogni faro era un puntino e, tracciando la linea che univa tutti quei puntini, si andava creando un ghirigoro, un sigillo, un simbolo che avrebbe dato ulteriore forma visiva al senso del viaggio.
Era una strada stretta, sinuosa come un serpente.

Parcheggiata l’auto, avevamo fatto fatica ad aprire le portiere per il vento forte, quel vento che avremmo dovuto immaginare così forte vedendo le piante cresciute piegate non per DNA ma per fenomeni atmosferici, quel vento che non potevamo comunque immaginare così: portava via i suoni, sovrastava la nostra stessa esistenza.
Si era voltato a guardare la strada da cui eravamo arrivati e aveva detto: “Io non posso tornare indietro, non posso…” e si era accasciato con il volto fra le mani.
Poi aveva sollevato lo sguardo e si era messo a fissare la strada. “Non mi ero reso conto che fosse così stretta… se torniamo indietro precipiteremo, ci faremo male, non posso tornare indietro, non posso…”
Con un braccio gli cingevo le spalle, con l’altra mano gli accarezzavo il volto. “Allora, ascoltami… se siamo arrivati fino a qui, possiamo anche fare il percorso in senso inverso. La strada è stretta, ma è sufficientemente larga per essere percorsa e di ciò ne hai già la prova…”
Continuava a guardare la strada, ma quello che vedeva era una strada che diventava sempre più stretta, anche se non era vero.
Non era vero, ma quella era la SUA verità.

Eravamo rimasti seduti a cercare di respirare quel vento che ci faceva oscillare e poi, dal piccolo parcheggio, era partita un’auto.
“Guardala. Sta salendo, la vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, ad entrambi i lati, per non cadere giù dal dirupo?”
“Ma… ma se arriva un’auto in senso opposto?”
Il Destino aveva voluto favorirci materializzando, appunto, un’auto che procedeva in senso contrario.
“Guardale. Una sta salendo e una sta scendendo: le vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, per entrambe le auto, per non cadere giù dal dirupo o sbattere contro la montagna?”
“Ma… sì, c’è spazio…”
Era caduto il silenzio, se silenzio si può definire il ruggito del vento di un promontorio alla fine del mondo.
“Sì, c’è spazio.” Avevo detto sorridendo.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Io? No.”
Non era vero, ma quella era la MIA verità.
Quella DOVEVA essere la mia verità.

Il Destino doveva volerci molto bene poiché, poco dopo, aveva fatto sì che un camper lasciasse il parcheggio.
“Uh, guarda quel camper: è gigantesco! Vediamo come se la cava su per la salita…”
Il mio compagno di viaggio, lasciandosi stringere forte le mani, aveva seguito il procedere del camper, mentre gli snocciolavo evidenze centrimetriche sulla possibile e comoda compresenza di due mezzi sulla carreggiata.
“Forse posso farcela…”
“Certo! Andiamo: è ora di lasciarti alle spalle questa paura, forza.”
Aveva raccolto nei polmoni quanta più aria possibile prima di mettere in moto l’auto, aveva guardato quella strada stretta, sinuosa come un serpente, ed era partito.
Lentamente.
Lentamente.
Una curva dopo l’altra.
Lentamente.
Fino ad arrivare in quel punto benedetto in cui la carreggiata si faceva più larga e con essa i respiri.
Improvvisamente accostava sulla destra, proprio a ridosso della parete rocciosa.
“Che cosa fai?” Gli avevo chiesto stupita.
“Voglio fotografare quello che mi sono lasciato alle spalle.” Mi aveva risposto quasi rinato.
Ci eravamo sorrisi e per una volta ero rimasta in auto, per una volta non avevo tirato fuori la macchina fotografica, per una volta ero rimasta a guardare, solo a guardare.
Avevamo proseguito il viaggio in compagnia del ricordo di due verità non assolute, che però erano state le nostre verità e ci avevano permesso, appunto, di continuare ad accumulare chilometri e immagini e sensazioni e esperienze.

Il giorno dopo avevamo visitato un altro faro, più accessibile di quello precedente.
Dopo aver scattato decine di foto ero rimasta a fissare il vuoto, le mani appoggiate su un basso parapetto di pietre e cemento.
Il mio compagno di viaggio si era avvicinato e mi aveva toccato una spalla dicendomi: “Hey… dove sei?”
Mi capitava spesso - e mi capita tuttora - di andare ‘altrove’ e di avere bisogno che qualcuno mi richiamasse alla realtà.
“Oh… sono qui, sono qui… solo che… ti ho mai detto di essere attratta dal vuoto?”
Gli si erano rizzati i capelli in testa. “In che senso?”
“Nel senso di essere attratta dal vuoto, né più né meno.”
“Allontanati da lì, allora, vieni…” Cingendomi i fianchi mi aveva allontanata da quel parapetto così invitante per via della sua minima altezza. “Non me lo avevi mai detto…”
“Te l’ho detto adesso.” Avevo risposto sorridendo, ancora preda dell’eccitante vertigine che il vuoto da sempre esercita su di me.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Di nuovo?” Ero scoppiata a ridere. “Vedi… i momenti di estasi sono sempre più intensi degli eoni di paura e dunque… e dunque si potrebbe dire che non ho mai paura o, meglio, che preferisco fare come hai fatto tu ieri quando hai lasciato alle spalle la tua paura, mi sono spiegata?”
“Sì, ti sei spiegata, ma non avvicinarti più a nessun parapetto, OK?”
“Okay…”

Qualunque forma abbiano le verità individuali, anche quando tali verità fossero costruzioni della mente e non verità assolute, vengano rispettate e tenute in gran conto: la vera ricchezza è la differenza, non il quoziente della verità in sé, sia che si stia andando verso un faro per una strada impervia, sia che si stia per spiccare il volo da un dirupo, sia che si stia già pensando al derby.
Già.
Inizia settembre e il primo pensiero, per quest’anno, è quello.
Il secondo pensiero è: ho paura.
Il terzo pensiero è: ci fanno neri.
Il quarto pensiero è: non vedo l’ora.
Il quinto pensiero è: sei una masochista.
Il sesto pensiero è: no, sono una del Toro.
Poi i pensieri si confondono tra loro e decido di pensare al giorno dopo, quando tutto sarà compiuto.

Puff puff pant pant.

Ogni tanto mi tornano alla mente ricordi di viaggi lontani nel tempo.
Magari dimentico qualche bel panorama, ricordo sempre le emozioni.

Come? Non ho quasi parlato del Toro in questo ‘temino’? Forse sì e forse no: talvolta il pensiero  devia verso altre strade.
Il pensiero ha deviato, solo il pensiero.
Il cuore no: lui non devia mai.
Amen.



Questa settimana tocca a “Guide Me Home” (dall’album ‘Barcelona’, 1988, Freddie Mercury & Montserrat Caballé).





Freddie, domani compi 67 anni: grazie per essere venuto su questo pianeta e per aver condiviso con noi grande parte della tua immensa anima. Non so perché insistano a dirti morto… forse si sta perdendo la comprensione della parola IMMORTALE (e non vale solo per te).




mercoledì 28 agosto 2013

Per non dimenticare nessuno

Mi nutro di emozioni


Digito il suo numero sul cellulare, squilli a profusione, finalmente risponde.
“Sì?”
“Saaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaglietssssssssssssssssss!”
“Gnaaaarleboffchecazz…”
“Sono tornata, vecchia ciarabattola!”
“Ma che ora è?”
“Le due del mattino!”
“Eeeeeeeeeeeeh?”
“Ciuppa. Le due del mattino, ciccio: il momento migliore per gli incantesimi!”
“Sei una bestia, strega, una bestia… non potevi aspettare un’ora più da Cristiani per chiamarmi, zio cane?!?!?”
“No: sono pagana. Com’è?”
“Ma vai a quel paese, disgraziata!”
Sagliets chiude la telefonata: che malmostoso.
Deve stare ancora rantolando sulla partita contro il Pescara, proprio come me, però… che antipatico. Gliela farò pagare.


Qualche anno fa

Lui - e non ha importanza chi sia, non ha proprio importanza - sta presentando il suo nuovo libro in una libreria nel centro della città. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché.
Entro esitante, non lo vedo, mi siedo, prendo appunti, faccio un giro, lo vedo: è laggiù!  Mi avvicino in silenzio, mi piazzo alle sue spalle, lo chiamo,  si volta,  sorride,  sorrido, ci prendiamo per il culo. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché.
Andavamo spesso allo stadio insieme, i momenti condivisi, condivisi come i lacrimogeni quella volta là, andavamo spesso allo stadio insieme.
Ci eravamo conosciuti in prima media, avevamo appena vinto lo Scudetto e quanto ci sentivamo fighi, quanto eravamo fighi, quanto già capivamo il significato di parole che a undici anni dovrebbero essere legate solo ai giochi o alle ‘cose’ dei ‘grandi’: combattere, soffrire, godere.
E grandi lo eravamo diventati insieme e poi insieme ci eravamo mandati a stendere con freddezza e crudeltà. Poi, per caso, ci eravamo ritrovati e, con noi, ritrovati furono i gesti, gli scherzi, le prese in giro pesanti, il Toro.
Lui sta presentando il suo nuovo libro in una libreria nel centro della città. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché. Chissà perché… perché ci eravamo mandati a stendere, sic et simpliciter.
Sorride, sorrido e guardo oltre le sue spalle.
La vedo: cazzo, è lei.
“Scusami, scusami… vado a salutare Laura!”
Lui rimane impietrito e ride sotto i baffi. Io so che cosa sta pensando, io so che sta pensando che sono sempre stata così, io so che anche lui è appena tornato a casa ed è anche tornato un po’ bambino, proprio come me.
Vado da Laura e ci abbracciamo. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché: non ci siamo mai mandate a stendere.
Abbracci, parole, sorrisi, il Toro, i libri, ma tu, ma lui, ma poi, ma quando, ma dai, ma sì: sì, non perdiamoci più.
Lui ci raggiunge e mi dice: “Non cagarmi, eh?” Sorride e poi va, va a presentare il suo libro.
Sono tanto orgogliosa di lui, tanto.
Lasciamolo da parte, non ha davvero importanza il suo nome, non in quel momento e neppure in questo: ormai è tornato nella mia vita, ormai sono tornata nella sua vita. Intanto ho ritrovato Laura: possiamo di nuovo camminare insieme.


16 agosto 2013

Oporto: caldo umido. Casino. Suoni. Rumori. Odori. Colori.
Sul City Sightseeing preferisco le cuffiette dell’iPod a quelle della guida.
Il cellulare vibra, guardo il display: un SMS di Laura. Non voglio leggerlo, so già che cosa troverò scritto, ma non voglio, accidenti… la rapida lotta fra egocentrismo e amicizia si risolve rapidamente e apro quell’SMS che non vorrei leggere.
Il papà di Laura ha chiuso gli occhi, è andato dagli Invincibili, “è andato avanti” come scrive Laura stessa. Oddeaddeaddea, Lauretta mia…
Alla fine del giro con il bus, scendo e la chiamo. Le solite parole di circostanza, anche se spero che il mio affetto e la mia partecipazione arrivino fino al suo cuore lacerato.
Ridicolmente mi metto a piagnucolare, me ne vergogno nel momento stesso in cui accade, ma non posso farne a meno, non posso farne a meno perché - di nuovo egoisticamente ed egocentricamente - penso che un giorno capiterà anche a me di ricevere le stesse parole di consolazione ed è un pensiero intollerabile.
Mentre Laura mi chiede di non piangere, con una mano scaccio fisicamente via i cattivi pensieri, e la ringrazio: “Grazie, per avermelo fatto conoscere di nuovo là…”



Ottobre 1972

Oggi inizio la seconda elementare.
C’è una nuova bambina in classe: si chiama Laura. Chissà se è simpatica… ha la pelle olivastra come la mia e gli occhi grandi e scuri.



17 maggio 1976

Ci siamo abbracciati e abbiamo fatto chiasso per tutta la mattina: ieri abbiamo vinto lo Scudetto!
Laura, io e gli altri del Toro come noi.
Il Maestro ha dovuto richiamarci più di una volta, ma in fondo ha capito: è un gran Maestro.



Aprile 2010

Torneo di calcio fra Amici/Fratelli al Fila: vado con Giulia, là troverò Laura.
Ci sediamo sui gradini, chiacchieriamo. “Tra un po’ dovrebbero arrivare i miei” Dice Laura.
Sento una strana emozione dentro di me, come un fuoco che non si sente degno di risplendere.
“Eccoli.” Mi dice con la voce dolce che è la stessa voce dolce di quando eravamo bambine, che è la stessa voce dolce con cui condivide con me passioni, dolori, risate, vita. La mia Lauretta.
Ci alziamo, andiamo loro incontro.
Ricordo bene la mamma di Laura, la ricordo bene.
Guardo suo padre e favello: “Mi dispiace, mi perdoni… non mi ricordo di lei: facciamo finta che sia la prima volta in cui ci incontriamo. Sono sempre stata un po’ stordita, sa?”
Gli stringo la mano e poi… e poi lo guardo bene negli occhi.
Cazzo, sì: mi ricordo di lui. Mi ricordo di quegli occhi, mi ricordo di quegli occhi in cui brucia il fuoco di fronte al quale il mio diventa un’esile fiammella.
“Aspetti… sì: mi ricordo di lei! Cavoli, sì!”
Lo guardo e davanti a me lo rivedo più giovane, con la schiena più dritta, la pelle più distesa.
L’orgoglio è rimasto immutato.
Laura ed io ci abbracciamo in lacrime e sua mamma ci sgrida bonariamente: “Sempre a piangere, queste due…” Sorride. Probabilmente anche lei ci rivede com’eravamo più di trent’anni prima.
Sono scossa da questo incontro, sono al cospetto di un Gigante, ho appena guardato negli occhi una delle tante persone che hanno fatto la storia del Toro senza urlare, senza strepitare, senza rivendicare un posto al sole, in silenzio, con le mani e il cuore a disposizione dell’Idea, con il cuore sempre alla ricerca di nuovi ostacoli da superare.



16 agosto 2013

“Grazie, per avermelo fatto conoscere di nuovo là…” Dico a Laura. Segue un “Ti voglio bene” e chiudiamo la telefonata.
Riposa in pace, Franco: hai messo al mondo una bella creatura, sai?



Punto e a capo

Toro-Sassuolo, sì.
Soprattutto in Maratona.
Soprattutto con gli Amici.
Soprattutto con i miei figli.
Soprattutto la prima Maratona di Giulia.
Giulia che si bullava con il fratello, il giorno prima della partita.

Giulia - Davide, tu in quali settori dello stadio sei già stato?
Davide - In Primavera e in Maratona.
Giulia - Questa sera vengo anche io in Maratona e sono già stata in Primavera, nei distinti e in tribuna, quindi sono stata in più settori di te!
Davide - [tace]

Giulia che ha paura dei suoni forti ed era un po’ preoccupata: “Mamma, c’è tanto rumore in Maratona?” e poi non è stata zitta un momento.
Giulia che ha pianto poco prima della partita “perché mi manca Rolando…”
Giulia che ha detto: “Speriamo di vincere così li vedo saltare dalla parte giusta!”
Giulia che ha pianto poco dopo la fine della partita perché li ha visti saltare dalla parte giusta e “... stai tranquilla, mamma, questa volta piango perché sono felice…”
E Davide? Un Uomo, un Uomo in miniatura (ma nemmeno troppo: non riesco ad abituarmi al fatto che mi abbia superato in altezza… non che ci volesse molto, eh?).
E io? Aaaaaaaah, ero gasatissima.
C’erano gli Amici, no? Paolo il Maestro di Musica, Davide con Maria ed Emanuela, la Stefi, la Nonna Olga (novant’anni, cinque mesi e due giorni!), Diego ai distinti che si stampava contro la parete divisoria in vetro per salutare e per un nanosecondo pensavo: “Hey! L’Uomo Ragno!”, Chris dall’Inghilterra, la pioggia… ah, la pioggia: la mia fedele Musa… dopo un po’ mi era venuta un po’ a noia, troppa ispirazione tutta d’un colpo rimane sullo stomaco pure a me, che sono vorace di emozioni… però la pioggia, la pioggia, la pioggia…
C’era anche un due aste speciale, sorretto da due creature speciali, speciali per me, speciali perché sì… i miei nipoti.
Quanto Amore, quanto!
Guardavo la partita e intanto pensavo al moltiplicarsi dell’Amore, dell’Amore per il Toro, pensavo alle persone che ho amato tanto e che amo tuttora anche se non ci sono più, guardavo i miei figli e vedevo da lontano il due aste dei miei nipoti: la Quarta Generazione di Tifosi Granata in Famiglia.
Uh, come mi piacciono le lettere maiuscole, sì.
Una volta venivamo allo stadio in quattro (mamma, papà, fratello, io), a volte in cinque (si aggiungeva il nonno), ieri sera eravamo in sei: mio fratello, io, i nostri quattro figli.
Forse siamo pirla, forse non lo so, forse non mi interessa, forse ero felice.
Forse?
Sì, la Felicità ha un volto e quel volto è fatto dalla mia Famiglia di sangue e dalla mia Famiglia di tifo.
Nessuno spazio per i cattivi pensieri, solo emozioni: il mio nutrimento.


Passo in redazione a ritirare la posta. Nella cassetta delle lamentele (sì, siamo piuttosto organizzati) c’è poca roba: smaltisco il tutto rapidamente e me lo getto alle spalle. La cassetta della concordia (sì, siamo anche piuttosto creativi) è bella e paciosa: quasi quasi mi concedo una coccola prima di imbracciare la chitarra. Leggo qualche foglio, mentre l’acqua si scalda nel bollitore, intanto arriva il mio tormento personale.
“Silvia!”
“Sono io, Sagliets, sì: sono io. E sono nel mio ufficio: mai sentito parlare di bussare?”
“Quanto sei noiosa… posso leggerti una cosa?”
“Aspetta, prima preparo il tea.”
Verso l’acqua bollente nelle mugs che mi ha portato Paolo da Londra e da Barcellona, intingo per tre minuti due bustine di Earl Grey.
“Procedi, Sagliets…”
“Allora…”
“Aspetta, metto su un po’ di musica: che cosa ne dici di sentire ‘NEVAEH OT YAWRIATS’ in loop?!
“Eeeeh?”
“Ciuppa, ciccio. Ho solo detto ‘STAIRWAY TO HEAVEN’ al contrario… alcuni dicono che ascoltarla in senso opposto al normale permetta di udire messaggi indubbiamente satanici.”
“Sei raccapricciante… ma che senso ha?!?”
“Nessuno, proprio nessuno. In realtà trovo pietoso che qualcuno abbia anche solo pensato si ascoltare ‘Stairway To Heaven’ al contrario… non era sufficiente tutta quella bellezza lì? Bisognava per forza lordarla?”
“La gggente è strana, Silvietta…”
“Già, Mauretti…” Sospiro e mi massaggio il collo: è da quando mi sono svegliata che ho un po’ di fastidio.
“C’è qualcosa che non va, collega?”
“Non saprei bene come spiegare… non è un vero e proprio torcicollo… è come se sentissi qualcosa che sfrega qui… uh, che noia…”
“Ciccia…”
“Yes?”
“Hai il colletto tutto storto, aspetta…” Delicatamente mi sistema la camicia e… magia: il fastidio scompare!
“Grazie, Sagliets! Anche tu ci hai i poteri, a quanto pare! O forse ho solo bisogno di una badante…”
“Magari avessi i poteri… è solo che tu vai sempre in giro tutta sgarruppata… come cavolo si fa a stare con mezzo colletto su e mezzo colletto giù senza accorgersene? Sarai anche una strega ma quando si tratta di fare cose semplici ti perdi in un bicchiere d’acqua, stordita!” Dice sorridendo.
Alzo le spalle e sorrido pure io. “Boh… è che i colletti sono proprio l’ultima delle mie preoccupazioni, a dire il vero…”
Finisco di bere il mio tea, imbraccio la chitarra e sia fatta la nostra volontà.
O la nostra pace.
O quel che l’è.
Forza Toro.



Questa settimana tocca a “In the Evening” (brano di apertura di “In Through the Out Door”, ultimo - sigh - album in studio dei Led Zeppelin, 1979).




Le note iniziali sono lugubri come certi momenti oscuri che noi Granata conosciamo bene e contestualmente mettono le ali, proprio come il Toro che, anche se fa girare le gonadi, rende felici, magari solo per qualche attimo. Non so perché ma, da qualche giorno, mi rimbombano in testa le parole di John Milton: “Meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso”... e non posso fare a meno di augurarmi/ci un ottimo regno.



RINGRAZIAMENTI A:

- Nicolò Campo per avermi concesso di utilizzare la foto da lui scattata domenica sera.
- I miei nipoti Agostina e Pietro per aver avuto l'idea di realizzare quel due aste.
- Mio fratello e mia cognata per aver messo al mondo i suddetti.




mercoledì 24 luglio 2013

Sulle colline e molto lontano

"Sì, siamo del Toro"


Faceva troppo caldo quella sera.
Stavo per prendere il volo e planare in redazione, ma no... no, in realtà avevo bisogno di stare sola con me stessa, volevo mettere a tacere tutte le voci, tutte le voci che mi ronzavano nella testa, volevo un po’ di pace... forse una passeggiata lungo il fiume mi avrebbe aiutata.
Uscivo e, accompagnata dalla sottile falce in cielo della Luna Crescente, arrivavo al fiume. Rimanevo ad ascoltare il suono dell’acqua che scorreva e decidevo che sì: era stata una bella idea.
Mi sedevo sull’erba a gambe incrociate a gustare la notte e il silenzio e il buio e l’assenza di afa e ragionavo - senza affanno, quasi con dolcezza - sulla mia incredibile capacità di scatenare vespai senza volerlo (o volendolo fortemente... uhm, la linea che separa la volontà dall'involontarietà talvolta è così sottile...)

Il copione della mia vita:
“Come ti chiami?”
“LaSilvia.”
“Che cosa fai nella vita?”
“Scateno vespai per amor d’entropia.”
È sempre stato così.

Quella volta, però, era andata diversamente, quella volta era stata mia volontà precisa aumentare il caos che regnava sovrano... una specie di gioco, di esercizio, di sfida.
La sfida era stata vinta, potevo andare oltre, potevo andare avanti.
Ma faceva caldo, un caldo gobbo e l’aria del fiume era l’unica magia che poteva farmi tornare a respirare.

Ah, che pace... nulla mi poteva disturbare, nulla... nulla a parte un improvviso urlo disumano.
“Yallaaaaaaaaaaaaah!”
“MiSchiachespaventoziocane! Sagliets! Che cosa Razzo fai QUI???”
“Sono venuto a partecipare alla gara di limbo: ta- tata-tatà, ta-tata-tatà, Tequila!”
“Santa Dea, fulminalo qui seduta stante, liberami dal rumore che egli produce, poi fallo ritornare in vita, va’...”
“Ti ho cercata in redazione: non c’eri. È stato solo grazie al chip localizzatore sottopelle che sono riuscito a trovarti...”
“Era proprio necessario?”
“Che cosa?”
“Trovarmi.”
“Sì.”
“Non potevi aspettare fino a domani mattina, Sagliets?”
“Sì.”
“E allora perché sei venuto a disturbare questo mio piccolo momento di pace? Mi sembra che ci sia già stato troppo casino questa settimana, no?”
“È quello che volevi: trovo inutile lamentarsi ora.”
“Non mi sto lamentando, ciccio, anzi... sto gongolando e sono tanto felice, sai? Ho avuto la riprova che c’è tanta umanità in quella che un tempo chiamavamo Grande Famiglia, tanta umanità... tanta e varia... molto varia... così varia che...”
“Che?”
“Ne parliamo un’altra volta: ascolta il fiume, non trovi che sia rasserenante?”
Rimaniamo in silenzio per un’undicina di minuti - fatto inusuale trattandosi di noi: probabilmente l’Apocalisse è vicina - e poi sospiro.
“Che c’è, strega?”
“Mauretti, ti ricordi di quando avevo trovato quella Bandiera del Toro tutta stracciata, in mezzo a foglie secche e polvere?”
“Ovviamente sì... mi fa sempre effetto vedere le foto che le avevi fatto... così come mi ha fatto effetto vederne la foto sull’innesco del vespaio che hai provocato... quando l’avevi trovata? Quattro, cinque... quanti anni fa? Non mi ricordo più...”
“Quasi cinque anni fa: era il tredici settembre duemilaotto.”
“Come diavolo fai a ricordare le date di tutto?”
“Boh, è una mia dote, una di quelle doti un po’ inutili e un po’ no... è anche una maledizione ma, di nuovo, ne parlaremo un’altra volta, se non ti dispiace... ricordi com’era andata?”
“Uhm... c’era stato una specie di uragano su Torino e tu...”
“... e io l’avevo vista lì per terra e allora...”
“...e allora eri rimasta a guardarla ed ascoltarla e quindi...”
“... e quindi l’avevo fotografata e poi l’avevo raccolta e me la ero...”
“... te la eri portata al petto perché tu...”
“... perché io...”
“... tu sei sempre Madre: abbracci con amore... e poi l’avevi fatta volare e...”
“... e emetteva un suono ruvido e poi l’avevo...”
“... l’avevi appoggiata dove l’avevi trovata nella speranza che il suo proprietario la ritrovasse.”
“Io non mi capacito, Mauro, proprio non mi capacito.”
“Di che cosa, Silvia?”
“Non capisco come si possa pensare che le foto di quella Bandiera così maltrattata dagli elementi siano state considerate di cattivo gusto... spiegamelo tu, per favore...”
“Io? No, non hai bisogno che ti spieghi nulla. Ci sono cose che non hanno bisogno di parole per essere spiegate.”

Siamo davanti allo sportello, è un ufficio un po’ trafficato, c’è chiasso, disordine, tutti pretendono, tutti esigono, che caos.
Guardo l’impiegata dietro al bancone: mi fa tenerezza. È cortese con tutti, è cortese anche quando deve rispondere per l’ennesima volta alla stessa domanda. I nostri sguardi si incrociano e le sorrido, così: per pura empatia.
Arriva il nostro turno, ma squilla il telefono: “Scusatemi...”, dice l’impiegata. Davide ed io chiacchieriamo, parliamo del prossimo campionato: anche lui non vede l’ora che incominci, anche lui sarà sempre allo stadio con me (con o senza abbonamento, noi si va allo stadio, ma fallo capire a chi... vabbe’).
L’impiegata si scusa a gesti per l’attesa, le sorrido, riprendo a parlare con Davide.
Davide che mi propone tre diverse formazioni, Davide che ha la fiducia che è giusto avere a tredici anni, Davide che è stato scelto dal Toro, Davide che è mio figlio ed anche un po’ mio complice di follia.
La telefonata finisce: “Scusatemi se vi ho fatto aspettare...”
“Si figuri: so com’è...” Le sorrido di nuovo.
“Signora, scusi se mi permetto, ma ho sentito che parlavate di calcio... per caso...”
Smette di parlare e con gli occhi segue un percorso ben preciso: prima guarda il mio petto, poi i miei polsi, alla ricerca di un segno e io - stranamente - capisco.
Capisco e le dico: “Sì, siamo del Toro.”
Adesso è lei a sorridere, adesso sorridiamo in tre.
Non mi capitava da un po’ di tempo e non capitava neppure a lei.
Non ci capitava di riconoscerci in mezzo alla folla.
E allora ci raccontiamo, ci raccontiamo il nostro Toro, il suo e il mio e anche quello di Davide, e anche se in alcuni momenti ci sono diversità, il Toro è sempre quello, è una specie di vortice di energia, un’energia che spesso schiaccia, ma quando ci si incontra e ci si riconosce, quell’energia è luce e respiro e pace.

“Che bello, Silvia, che bello... una volta ci capitava più spesso.”
“Che cosa, Mauro?”
“Di riconoscerci, di riconoscerci senza etichette.”
“Magari ritorneremo a riconoscerci, chi lo sa...”
“Senti, fai una cosa: speralo tu e speralo anche per me, d’accordo?”
“D’accordo. Ci vediamo da Stringi?”
“Sì, ci vediamo lì tra un mese.”
“Speriamo passi in fretta...”



Questa settimana tocca a “Over the Hills and Far Away” (Led Zeppelin, “Houses of the Holy”, 1973, terza traccia della prima facciata).





Sulle colline e molto lontano: lì andrò a cercare rifugio.
Dedico “Over the Hills and Far Away” ai giorni da qui all’inizio del campionato: ritornerò a gironzolare da queste parti in concomitanza con il medesimo.
SFT




mercoledì 17 luglio 2013

Non ho le palle

Domande, risposte e constatazioni


Disclaimer: Le opinioni espresse nella rubrica “Pagina Infinita” sono totalmente ed esclusivamente mie. I capoccia di [testata su cui scrivevo] non hanno responsabilità alcuna per ciò che scrivo. Inoltre, essendo femminuccia, porto sulle spalle l’eredità di quella scostumata di Eva, colei che nell’Eden diede retta al Serpente: la colpa è insita in me. And I like it (pane, Toro e rock’n’roll).


Lo dirò senza fare troppi giri di parole: la campagna abbonamenti per il campionato 2013/2014 mi fa orrore.

“Per i tuoi figli abbiamo una babysitter con le palle”
Domande:
1) Che cos’hanno che non va le ovaie?
2) Babysitter? Io vivo insieme con i miei figli, faccio cose insieme con i miei figli, vado perfino allo stadio insieme con i miei figli. E se andare allo stadio non si può per motivi filiali, allo stadio non si va e dei propri figli ci si prende cura... o no?
3) Babysitter con le palle. Uhm. Aaaaaah! Ho capito! Metodo Rottermayer: disciplina, disciplina, disciplina?
4) Perché non è contemplato un babysitter per mamme che vogliano mollare i figli allo stadio?


“Se tua moglie è fissata con le corna, portala a vedere il Toro”
Domande:
1) Se tua moglie è fissata con le corna, avrà le sue ragioni?
2) I mariti non sono fissati con le corna perché si sa: le donne sono tutte zo§§ole?


“La tua ragazza vuole sempre uscire nel weekend? Fai contenti tutti e due: portala allo stadio.”
Domande: mi sono stancata di farne.
Amen.


Mi viene un sospetto, però... magari sto fraintendendo il senso altamente ironico del tutto.
Proverò ad intervistare due passanti a caso.
Eccone uno: “Scusa, posso farti una domanda?”
“Sì, certo.”
“Questa è la campagna abbonamenti 2013/2014 del Toro: che cosa ne pensi?”
“Be’... fa schifo. La parola ‘palle’ mi sembra eccessiva e le corna... la parola ‘corna’ usata come sinonimo di ‘tradimento’ non c’entra niente con il Toro... per me le corna del Toro sono i goal, il sudore, la voglia di ribaltare tutto anche quando non c’è più speranza... la mia impressione è negativa.”
“Grazie mille.”
Mumble mumble.
Un altro passante, anzi: una passante.
“Scusa, posso farti una domanda?”
“A-ha.”
“Questa è la campagna abbonamenti 2013/2014 del Toro: che cosa ne pensi?”
“Hanno ragione.”
“In che senso?”
“Be’, mi piace perché dice di portare qualcuno allo stadio: è una cosa bella.”
“OK. E per quanto riguarda il resto?”
“Mi imbarazzano le frasi sulla babysitter e sulla moglie.”
“Grazie mille.”

I passanti intervistati sono i miei figli: passavano per il corridoio.
Ha-ha-ha-ha!
Non fa ridere?
Eh... lo so.
A me non fa ridere che entrambi siano in imbarazzo.
Vabbe’.

L’importante è che se ne parli, no?
Sbagliato: l’importante sarebbe invogliare la gente ad andare allo stadio.
Io so un sacco di cose, ma tante davvero.
Sono quasi tutte cose inutili, ma le so.
Per esempio so che per pubblicizzare correttamente un prodotto non basta fare in modo che se ne parli, bisogna anche e soprattutto invogliare l’acquirente a diventare tale.
Come? Non è il mio mestiere e quindi non ne capisco una beneamata fava?
Pol’esse.

Manchiamo di senso dell’umorismo? Naaaaa, abbiamo continuato ad andare allo stadio anche quando era tutto una comica.

Manchiamo di classe? Non NOI di sicuro.

Famose ‘na risata? Fatevela voi.

Non so bene come spiegare il mio senso di disagio ed ho la presunzione di non doverlo spiegare, in realtà...
È lo stesso disagio che provo quando sento un adulto usare il turpiloquio come strumento di affermazione della propria autorità.
È lo stesso disagio che provo quando sento un bambino usare le urla come strumento di affermazione della propria esistenza (ma, in questo caso, generalmente si tratta di bambini che non vengono presi in considerazione, che - magari - invece di essere seguiti e ascoltati vengono parcheggiati da una babysitter, con o senza le palle).
È lo stesso disagio che provo quando sento cori odiosi o vedo striscioni, altrettanto odiosi, inneggianti alla sciagura di Superga.
Sarà un problema mio.
Starò diventando una mammoletta.
Ah, non ci sono più le donne Donne e gli uomini Uomini di un tempo...
Ah, il senso dell’umorismo che contraddistingueva la tifoseria Granata non è che un ricordo...
Oh, be’... anche il Toro non è che un ricordo.

Riassumendo:
1) non è un ‘inciampo’ mediatico a togliere dignità A ME (e con “ME” intendo le migliaia di sorelle e fratelli che, come ME, son rimaste basite) in quanto tifosa Granata
2) però ‘sto ‘inciampo’ mediatico ha inficiato del tutto la mia intenzione di fare l’abbonamento per la stagione ventura (oddeaddeaddea...)
3) peccato: mio figlio aveva espresso il desiderio di fare l’abbonamento, il suo primo abbonamento (“sì, mamma, io sono contro la TdT, ma se facciamo l’abbonamento risparmiamo un po’ di soldini...”)
4) bene: mio figlio rimane, a modo suo, un idealista anche se (mannaggia) non gli andrà giù facilmente questo ennesimo boccone amaro

La fregatura, se di fregatura si può parlare, è che comunque sarò sempre là a sostenere i Ragazzi.
Non ho le palle, evidentemente (mio marito ringrazia)... le chiederò in prestito - con diritto di riscatto - alla babysitter.
Olé.



Questa settimana tocca a “Incubus” (Lucifer Rising, Jimmy Page, pubblicato nel 2012 ma risalente a circa quarant’anni prima): roba d’avanguardia, roba complicata, roba per Pageanisti: il titolo dice tutto, no?



Dedico “Incubus” alle Creature del Male, in qualunque piano esistenziale si trovino. Se magari si allontanassero dal MIO piano esistenziale sarebbe un gran bel godere.
Cerea.



[originariamente pubblicato su una testata su cui scrivevo tanto tanto tanto tempo fa]

mercoledì 10 luglio 2013

Cose

Il volto di chi ha riposato il giusto


Sagliets scrive - Silvietta, sei lì?
LaSilvia scrive - No.
Sagliets scrive - Smettila di fare la scema... hai due minuti?
LaSilvia scrive - Certo... problemi?
Sagliets scrive - Sono amareggiato.
LaSilvia scrive - Urca. Vieni nel mio ufficio, intanto metto su il bollitore.
Quando Sagliets dice di essere amareggiato, vuol dire che la situazione è grave e pure greve.
Entra, mi saluta con uno sguardo che fa il giro del sistema solare e poi, di ritorno, frena in prossimità della Luna, si lascia andare sul divano e urla: “Mi sono rotto le scatole.”
Faccio finta di niente, magari ha ancora qualcosa da dire.
“Adesso cambiamo registro, però, adesso basta. Basta. BASTA! Perdo ore di sonno, di vita, di tutto... per niente, ca§§o! Per niente!”
Sorrido con un angolo della bocca: so come si sente, ma è giusto che sia lui a tirare fuori tutta la rabbia.
“Non pretendo le lodi, non pretendo che si sia d’accordo con me, ma... il rispetto, ca§§o, un minimo... un minimo di rispetto...”
Verso il tea, gliene porgo una tazza, inizia a bere.
“Bene, Mauretti... tu sei soddisfatto del tuo ultimo articolo?”
“Sì, ma...”
“‘Ma’ un corno. Tu sei soddisfatto? Sì. Bene: il resto non conta.”
“Non conta? E allora che cosa conta?”
“Conta la tua stanchezza, Sagliets... dai, bevi il tuo tea: io ti racconto cose, vuoi?”
“Sì.”

Cosa numero 1
“Mamma, oggi vado a visitare il Museo dello Sport all’Olimpico.”
“Dooooooveeeeee???”
“All’Olimpi...”
“Eeeeeeeeeeeeeeeeh???”
“Ah, OK: al Comunale.”
“Bravo, ragazzo. Poi racconti?”
“Sì!”
Va in gita, torna, racconta.
“E ho visto questo, e ho visto quello, e poi bla e pure bli e pure blu...”
Parla parla parla. Ho mal di testa, un mal di testa punkabbestia.
“E poi siamo entrati sul campo e ci hanno fatto tirare dei rigori e ho sbagliato il primo e ho segnato il secondo e sai in che direzione ho segnato?”
Gli faccio cenno di proseguire: ho così male che non riesco a parlare.
“Ho segnato sotto la Maratona!”
Mi fermo a guardarlo e vedo... vedo quella cosa strana che si vede sul volto dei propri figli. Vedo le mie speranze, vedo i suoi sentimenti, vedo il suo modo di piegare la testa di lato proprio come faceva Nonno Giulio, vedo quella strana ‘ruga’ che gli si forma fra le sopracciglia proprio come a me medesima, vedo le persone che amo e che ho amato, vedo una persona totalmente diversa da me, vedo un uomo in crescita, vedo tutto il mio passato e il mio futuro e posso accomodarmi nel mio presente rendendomi conto che il mal di testa si è volatilizzato.
“Scusa... puoi ripetere, ciccio?”
“Ho segnato sotto la Maratona!”
Allungo le braccia verso il cielo e poi, abbracciandolo, grido: “GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOLLLLL!!!” Improvviso una danza, saltello come una forsennata e poi pronunzio LA frase:

LUI È MIO FIGLIO! HA SEGNATO SOTTO LA MARATONA! MIO FIGLIO! MIOOOO! FIGLIOOOO! HA SEGNATOOOO! SOTTOOO! LA MARATONAAA!

Siamo sul marciapiedi di fronte al centro estivo, è un momento un po’ trafficato, i genitori e i nonni e gli zii e i gagni di passaggio, mi guardano straniti e io sorrido, sorrido a tutti, beata come può essere beata la madre di un finferlo in crescita che, nello stadio vuoto, ha segnato un rigore sotto la Maratona.

Cosa numero 2
Il giorno dopo.
“Mamma, oggi anche io vado a visitare il Museo dello Sport.”
“Uh, davvero? Spero che anche tu possa andare in campo, ciccia.”
“Eh... speriamo... poi ti racconto tutto.”
“Non vedo l’ora.”
Va in gita, torna, racconta.
“E ho visto questo, e ho visto quello, e poi bla e pure bli e pure blu...”
Stesso entusiasmo del fratello, stesse emozioni mie nel guardarla mentre racconta.
“Ciccia... qual è stata la parte che ti ha interessato di più?”
Mi guarda quasi scandalizzata, allarga talmente tanto gli occhi da sembrare più manga del solito e, allargando le mani, dice: “La parte con le cose del Toro, ovviamente!”
Scuote un po’ la testa come per rimproverarmi per la stupidità della domanda, allora cerco di rifarmi.
“Hai visto qualcosa che conoscevi già, ciccia?”
“Be’, alcune foto di giocatori antichi [i giocatori antichi... solo per aver detto questa cosa la amo una briciola in più] e poi ero l’unica del mio gruppo a conoscere la storia della tragedia di Superga.”
“Ma scusa... non c’è nessun altro del Toro nel tuo gruppo?”
“Sì, ma io ero l’unica a sapere di Superga.”
Scuoto un po’ la testa come per rimproverare mentalmente quei genitori Granata che non hanno ancora raccontato la Storia ai propri figli e poi scuoto le spalle: devo parlarne con il Diretùr, ma non adesso, non adesso...
“... e poi ci hanno fatto andare in campo, ma io non sono riuscita a segnare sotto la Maratona. Non ho proprio segnato da nessuna parte.” Dice con tono sconsolato.
Mi fa sorridere ‘sta donna in crescita, mi ricorda me quando ero piccola e anche me tra due giorni, soprattutto è unica nella sua unicità.

“Vado avanti, Sagliets?”
“Sì, per favore...”

Cosa numero 3
Chiamo il Diretùr.
- Hellooooo!
- Oh.
- Diretùr, Diretùr! Davide ha segnato sotto la Maratona e Giulia sapeva la storia di Superga e gli altri no!
- Oh.
- Uh.
- Che bella storia...
- Senti, io stavo pensando ad una cosa.
- Davvero? Festeggiamo!
- No, dai... Capo, piccola riflessione, ma piccola piccola piccola.
- Dimmi, LaZilvia.
- Boh.
- Ah, sì: sono d’accordo.
- No, uffff... è che stavo pensando che ai nostri figli raccontiamo le favole belle e anche le favole brutte e nelle favole brutte sono compresi un aereo che si schianta contro una collina, un giocatore che viene investito da un’auto e un altro giocatore a cui scoppia una vena. Non è un po’ troppo? Sì, lo so: è andata proprio così, ma... boh, ogni tanto mi viene la stufia da tragedia aleggiante... anche perché tutta ‘sta cupezza, in alcuni momenti, mi fa sentire più ganza degli altri... hai presente quella roba tipo ‘Mi piego ma non mi spezzo’, ‘Sono io che faccio paura alla sorte’? Quella roba lì. Temo di perdere di un po’ di umanità per favorire l’alone mistico-eroistico, che - fra le altre cose - è uno degli aloni più difficili da mandar via, manco la trielina, che diamine!
- Hai provato con il sapone di Marsiglia?
- Uhm, no: buona idea. Grazie, Capo!
- Non chiamarmi Capo.
- OK, Capo.
- Così ragioniamo.
- Ma... secondo te ho sbagliato a raccontare ai bambini di tutto il sangue che ha intriso la nostra storia? A volte mi faccio lo scrupolo...
- Secondo me non hai sbagliato tu così come non hanno sbagliato quelli che hanno preferito rimandarne il racconto... credo che l’unico errore, se di errore si può parlare, sia quello di sentirsi più fighi degli altri.
- Sei saggio, Diretùr.
- Sì.
- E anche modesto.
- Ancora! Ancora!
- Ciao.
- Nuuuuuu!
- Ciao, stai bravo e resta umano, OK?
- Anche tu.
- Va bene.
Click.

“È interessante che, pur seguendo percorsi totalmente diversi, stiamo arrivando alle stesse conclusioni, Silvietta...”
“Già... sai perché ho deciso di diventare una fattucchiera?”
“Perché ci hai i poteri, no?”
“No, Mauretti... perché era l’unico modo per essere ciò sono nel momento in cui lo sono: a volte brava, a volte cattiva, a volte così così. Senza schemi. Senza obbligo alcuno se non il rispetto dell’idea altrui.”
“Tu sei troppo generosa, magari lo diventerò anche io...”
“Anche tu lo sei... è per questo che mi dispiace se ti becchi male quando qualcuno si lamenta per la lunghezza dei tuoi pezzi...”
“È una cosa che mi fa imbestialire!”
“Lo so, ma permettimi di dirti che sbagli. Sbagli come chi si sofferma sulla quantità senza badare alla qualità. Quando ci si concentra sulla qualità tutto il resto sparisce. Tu potresti scrivere un pezzo da venti pagine così come una breve frase e raggiungere altezze inimmaginabili: è il tuo Dono.”
“Sei troppo generosa, te l’ho già detto prima.”
“E tu devi smettere di prendertela per le inezie. Rispetta l’idea altrui e vai avanti così.”
“Ci penserò.”
“Va bene. Hai voglia di leggere in anteprima parte di quello che pubblicherò prossimamente?”
“Sempre.”
“Ti voglio bene, Silvietta.”
“Io ti detesto, Mauraccio.”
Mi sorride, forse si sente un po’ sollevato, chi lo sa... a volte vorremmo andare fra le piante di mais che svettano copiose sotto le finestre dell’immenso ufficio del Diretùr per costruire un campo da calcio e vedere se, come ne “L’Uomo dei Sogni”, le voci che ci tormentano hanno ragione d’essere. Magari ci potrebbe accadere, una volta accesi i riflettori, di vedere il Toro del futuro e trovare nuova linfa e nuove motivazioni, anche se le vecchie motivazioni non sono sparite: stanno solo dormendo e un giorno si sveglieranno con il volto di chi ha riposato il giusto.


Questa settimana tocca a “My Blues Is You” (12” del 1983, Neon). È un brano che rientra nel gruppo dei brani che io chiamo ‘intoxicating’: ha lo stesso effetto di uno stupefacente senza fare danni. “Amaro è il ricordo che non muore” recita il testo (vabbe’, “Bitter is the memory that won’t die” dice in realtà): mi ricorda qualcosa.



Dedico “My Blues Is You” ai momenti di umanità e di non fighezza.
Non dedico “My Blues Is You” a chi ci teneva tanto a diventare un cugggino. Magari ora ti insegneranno modi e tempi in cui esprimere i tuoi desideri. Per quanto mi riguarda, ho chiuso con te già dallo scorso anno. Nessun rimpianto. Fare thee well.
Dedico “My Blues Is You” a me, che domani compio (troppi) anni e continuo imperterrita a cercare la felicità (e riesco anche a trovarla!). Anzi... a me dedico anche questa:





Da “In Through The Out Door”, 1979, terza traccia della prima facciata.
Senza i Led Zeppelin non è vero compleanno e poi oggi, a dispetto di tutto e di tutti, ho voglia di cantare e ballare.




mercoledì 3 luglio 2013

Zattere e...

... gusci di noce


Poco più di un anno fa scendevo da una zattera per salire su un guscio di noce che si sarebbe rivelato una nave salda e continuamente alla ricerca di nuovi oceani da esplorare.
Mi piaceva la zattera su cui avevo viaggiato per un po’, ma poi era accaduto l’imponderabile: c’erano falle piuttosto vistose fra i tronchi che la componevano, ma si faceva di tutto per dire che andava tutto bene, che era tutto meraviglioso, che eravamo una squadra fortissimi.
Allora avevo deciso di proseguire il viaggio nuotando verso un puntolino lontano, che si era fatto vicino e pur facendosi vicino sempre puntolino rimaneva.
Dopo un anno il puntolino è diventato un poderoso punto Granata che sta fra le parole TORO e IT.

Ciò detto... oggi mi manca la voglia.
Oggi è uno di quei giorni in cui scrivere è l’ultima delle cose che ho voglia di fare.
Di solito mi fermo per il mese di agosto e poi l’inizio del campionato mi offre nuovi racconti da raccontare, nuove incazzature da digerire, nuovi momenti di riconciliazione con ‘sto Amore Granata.
Questa volta avrei voglia di fermarmi prima, vorrei vivere il mese di luglio (è un ottimo mese: vi ci sono nata io) cazzeggiando e basta, leggendo invece di scrivere, sentendo le dita iniziare a prudere ed appoggiarle alle corde della mia guitarra invece che su una tastiera.
Boh, vedremo... intanto oggi mi manca la voglia e allora guardo indietro.
Guardo indietro, leggo, rileggo, copio e incollo (copio e incollo roba mia, eh? Io sono una brava ragazza... un po’ âgée, ma sempre brava... be’, quasi sempre...).
All’inizio del mio viaggio in prossimità del puntolino, avevo raccontato di un luogo speciale in cui avevo fatto sventolare la mia Bandiera: le Shetland.

E fu così che portai la Bandiera del Toro al 60° Parallelo Nord.
In quei momenti, in quei momenti in cui la stringevo forte per paura che volasse via, io stringevo forte tutto il Toro.
Era come stringere fra le mani un mondo infinito e, quindi, essere infinita pure io.
Essere infinita come una pagina i cui confini sono solo nella mente di chi ha perso la voglia di sognare.
Stringevo fra le mani il mio mondo Granata e abbracciavo idealmente tutti: buoni, cattivi, cosìcosì, stron§i, meraviglie, tutti. Abbracciavo anche me. Dea mia, che sensazione di pace.
Pace.
Silenzio.
Consapevolezza.
Soprattutto pace.
Come essere una pagina vuota.
Una pagina infinita.

Copiare e incollare.
Uhm... no, forse non fa per me.
Che cosa fa per me?
Fare elenchi.
Elenchi di qualsiasi cosa.
Elenchi di colori, canzoni, eventi, standing stones, odori, sensazioni, battiti di cuore.
Sì, battiti di cuore: quella roba per i romantici, per i romantici che disdegnano il miele dei cuoricini rosa intorno a frasi fatte, per i romantici che son guerrieri.
Guerrieri.
La mia Amica Valentina dice che io sono guerriera senza rompere il ca§§o agli altri, chissà se ha ragione.
A proposito di guerrieri e di romantici... vogliamo parlare di mio figlio? No? E vabbe’: ne parlo lo stesso.
È stato un campionato, quest’ultimo passato, un po’ rivoluzionario per la mia storia di madre Granata. Ormai ero abituata ad andare allo stadio con la figlia: che meraviglioso equilibrio.
Prepotentemente, però, si era inserito un terzo elemento: mio figlio, appunto. Mio figlio: quello che per tre anni non aveva voluto sentir parlare di stadio.
Si è inserito così bene che mi ha dato una lezione di quelle che durano per tutta la vita.
Sul tramonto di Toro-Catania, si è voltato verso di me e, serio serio, mi ha detto: “L’anno prossimo voglio fare l’abbonamento.”
“Aspetta un momento, ciccio...” Gli ho risposto, allontanandomi da lui ed avvicinandomi all’Amico Paolo. “Paolo, Paolo... ha detto che vuole fare l’abbonamento...”
Ed egli, l’Amico Paolo, rispose: “Che piciu, con rispetto parlando... e bravo il ragazzino!”
Ritenutami benedetta sono tornata dal figlio per dirgli: “Ma ne sei sicuro?”
“Sì, mamma!” Mi risponde sorridendo.
“Ma... perché?”
“Perché voglio vedere tutte le partite del Toro.”
“Anche se ci sarà da incazzarsi tre volte sì e mezza no?”
“E chi se ne frega, mamma! Io sono del Toro.”
Bon, 2 a 0, palla al centro

A proposito di figli.
Il mio Amico Davide, splendido compagno di stadio, qualche giorno fa mi scriveva un compendio di buona genitorialità Granata.
Devo premettere che raramente ho visto padri attenti ed amorevoli come Davide: chapeau, Amico mio, chapeau... così come devo premettere che i figli di Davide sono speciali, belli, sani, due vere sagome, uno del Toro e l’altro no.
Cioè... uhm, come spiegare? Mettiamola così: uno è del Toro, l’altro quasi anche se - per ora - indossa colori diversi.
Davide mi scriveva queste parole:

Venerdì sera siamo andati a trovare i pupi che sono al mare con i nonni.
La sera usciamo e Andrea si veste con la maglia di Mazzola (che ormai è una seconda pelle) e la tuta ufficiale dei pulcini del Toro (che gli è stata regalata da una amica di Mari).
Durante la passeggiata incrociamo un signore con la maglia del Toro pure lui. Questo signore, vedendo Andre, torna indietro, gli stringe la mano e gli dice: “Bravo ragazzo, tu
stai dalla parte giusta, Forza Toro!” e Andre “Forza Toro!”. Al che Andre mi dice: “Sai papà, questa settimana avrò incontrato almeno 10 persone del Toro e tutte mi ha detto ‘Forza Toro’, che bello essere del Toro!”
Nella serata ne abbiamo incontrati altri due, ieri a colazione una ragazza gli ha fatto i complimenti per la maglietta Granata, ieri sera alle giostre altre due persone…
Tu sai bene cosa vuol dire.
Andre lo ha capito da solo, senza che io glielo rimarcassi più di tanto, che cosa vuol dire essere del Toro. Siamo una grande famiglia, orgogliosi di mostrare la nostra passione e fede non solo nel calcio...
Fili, intanto, osserva queste cose, capisco che piacerebbe anche a lui ma, per ora, con la maglia sbagliata non gli è mai capitato e mai gli capiterà.
Lo capirà da solo?
Io non insisto perché, conoscendolo, per reazione si incaponirebbe ancora di più nella sua scelta diversa.
Poi, come dici tu, è il Toro che ti trova...

Che cosa dirti, Davide... il mio sogno è quello di andare in curva portando con noi i tuoi due e i miei due marmocchi: saremmo una specie di esercito.
E siccome sono del Toro, così come lo sei tu, sognare è quanto di più facile noi si riesca a fare, anche in mezzo ad anni di sofferenza.
Ad Andrea dico FORZA TORO, a Filippo dico di essere sempre coerente con le sue scelte e di ascoltare il proprio cuore: lo porterà sicuramente nella giusta direzione.

Ciò detto... oggi mi manca la voglia.
Quasi quasi faccio un salto in redazione...

… che pace. Sono tutti nella torre ovest a parlare del quasi-mercato del Toro e io posso godermi il silenzio del mio antro. Sagliets dev’essere andato in montagna ad arrancare ed annaspare: non è on-line. Quasi quasi vado a scompigliare gli appunti sulla sua scrivania... ma no, dai: sto tanto bene nella mia solitudine... questa mia solitudine che è quasi un luogo geografico in cui riesco a sentirmi correttamente collocata e non fuori luogo come in quasi tutti gli altri casi.
Accendo il bollitore, mi preparo un tea, mi accomodo sulla poltrona di vimini, sto per gustare la bevanda color tramonto quando mi avvedo di non essere sola come avevo creduto fino a qualche momento prima: sta succedendo qualcosa fuori.
Appoggio la tazza sul tavolino a tre gambe, mi avvicino alla finestra e per poco non capitombolo a terra per lo spavento: fuori dalla finestra, appeso ad una fune robusta, c’è Sagliets.
Penzola e dondola e si dimena un po’.
Apro la finestra - detesto la luce - e gli chiedo: “Ma che cosa diavolo ci fai lì appeso come un salame in cantina, dannat’uomo?”
“E swisssssssssssh.... e swosssssssssssh... e oplallà...”
Sono tentata di chiudere la finestra e di lasciarlo al suo destino, ma un inaspettato moto di bontà mi costringe a chiedergli se ha bisogno di aiuto.
“Più che di aiuto ho bisogno di un tea caldo e, inoltre, volevo fare un’entrata ad effetto.”
Entra nell’antro (sic) ci sediamo a bere il tea e, per una volta, una volta soltanto, non parliamo del Toro, ma di tutt’altro: musica, Irlanda, figli, sogni.
Veramente è lui che parla, parla tanto, sembra un torrente in piena, io mi limito ad ascoltarlo: ha così tante cose da dire e a volte gli manca il tempo per farlo.
Un po’ mi viene da ridere: di solito sono io quella che parla senza quasi prendere fiato... mi piace quest’inversione di ruoli...

A proposito di ruoli: c’era una volta una zattera e sulla zattera c’era un bar e in quel bar si servivano Cappuccini. Erano Cappuccini verbosi e in uno avevo lasciato in sospeso un discorso, che ora posso chiudere.

Riassumendo: era il 25 febbraio 2011 e scrivevo così:

Hey, Fratello...
Parte uno di due

Buongiorno Toro... anzi, no: buongiorno, Fratello.
[...]
Ti ricordi di quando ci siamo conosciuti, ma poi ci siamo conosciuti tre anni dopo?
Effettivamente il nostro percorso è stato strano.
[...]
Ci siamo incontrati di nuovo due anni dopo, lo scorso giugno: sera di play off.
Brutta serata, eh, Fratellone? Mi ricordo la tua faccia, alla fine della partita, ed era come la mia: fra in triste e l’inGranazzato, qualunque cosa voglia dire (sono sicura che TU troverai il significato giusto).
Quella sera abbiamo perso i play off e ci siamo trovati.
Ciò detto... tu ed io ci siamo fatti una promessa.
Prima, però, faccio un passo indietro e lo faccio solo io perché, per ora, ti tocca di stare su quel
trabiccolo.
Manca poco, Fratello, manca poco e potrai buttare a mare il trabiccolo... non ce la faccio a chiamarla sedia a rotelle, non dopo che ho imparato ad aprirla e a chiuderla senza produrre danni né su di essa né su di me, non dopo che, in sua compagnia, ci siamo avventurati sul terreno del Fila, complici le tenebre, e ci siamo raccontati di noi.
Ora faccio un passo avanti e ritorno sulla nostra promessa.
La rendo nota? Perché no... la promessa è quella di tornare su quella terra magica e di stappare una bottiglia di quello buono e di brindare ai tuoi piedi che varcano la soglia e camminano.
Non è ancora tempo, Fratello, ma manca poco... se te lo dico io, sai che puoi crederci.
Buon fine settimana a tutti NOI e... la seconda parte di questa storia, che è una piccola grande
parte importante della mia vita, Granata e non, verrà quando, finalmente, i bicchieri tintinnerano al Fila.
Ecco.
N.B. La parola 'ecco' non c’entra nulla, ma il mio Fratellone di cui sopra l’apprezzerà, ecco.

Oggi, 2 luglio 2013, posso finalmente scrivere:

Hey, Fratello...
Parte due di due

Il mio Fratellone di Fede, dopo mesi e mesi e mesi, può abbandonare la sua sedia a rotelle.
Me lo ha detto per telefono questa mattina quasi sospirando, quasi con voce tremula, quasi soffocato dalla gioia.
Qualunque cosa succeda da qui alla fine del calcio-mercato, questo è il migliore acquisto: la libertà di fare una passeggiata insieme, insieme anche alle nostre diversità di scelte politiche e quant’altro, e di stappare quella bottiglia che teniamo da parte da un po’ e che non vede l’ora di essere vuotata.
Ecco.

Voglia o non voglia, sempre nel Toro mi ritrovo: a far monologhi che, chissàforseboh, verranno ascoltati.




Questa settimana tocca a “Bron-Y-Aur Stomp” (Led Zeppelin III, 1970, quarta traccia della seconda facciata, nonché penultimo brano del disco).
L’ho scelta perché sto imparando a suonarla e, fondamentalmente, è colpa sua se non ho voglia di scrivere: sono troppo concentrata sui suoni orrendi che sto producendo e sulla fatica orba di renderli più o meno ascoltabili.





Dedico “Bron-Y-Aur Stomp” alla mia stanchezza, che - in questo momento - è tanta.