Bonzo A John Henry Bonham Nato a Redditch il 31 maggio 1948 Morto a Clewer il 25 settembre 1980
Come la mettiamo, Bonzo?
Domani l'inizio del tuo viaggio nell'Altrove diventa più grande del numero di anni in cui sei stato su questo stramaledetto pianeta destinato ad una fine ingloriosa (se continuiamo a trattarlo così).
Hai contribuito a farmi diventare grande in termini di anima e anche a farmi diventare adulta perché quando sei giovane - e quando te ne sei andato ero DAVVERO giovane - i Miti non muoiono mai e, insieme con la tua morte, hai portato via alcune illusioni.
Tu non ti sei più svegliato, io mi sono svegliata definitivamente.
Be', definitivamente... ho sempre la speranza che in realtà sia tutto uno scherzo, che tu sia nascosto nello scantinato della Tower House a provare nuovi suoni, mentre Pagey ti nasconde la vodka, Percy ti fa qualche scherzo e Jonesy rimane a guardare pensando: "Che incubo... credevo che non si svegliasse più e invece...".
I Miti possono anche morire, la Speranza NO.
Celebro un giorno triste e la mia immensa gratitudine per te.
"Ciccio, perché guardi la partita stando seduto al tavolo? Vieni a sederti qui vicino a me, dai..."
"OK" Sorride.
Sorride e non fa in tempo a sedersi: il Toro segna e siamo abbracciati scompostamente.
Dopo vari saltelli e grida che richiamano l'attenzione del vicinato, finalmente ci sediamo vicini.
Non parliamo molto, come da nostra abitudine, come da nostra telepatia.
La nostra telepatia, già.
Ho un pensiero nella zucca, ma non voglio dargli voce.
No, non si tratta di scaramanzia, è solo che - davvero! - non capisco se sia un mio o un suo pensiero.
Stranamente non è uno di quei pensieri tipo gattinochesiappendeaicoglioni, no; stranamente è un pensiero tipo chegattinomorbidofapurelefusa.
Tocca a me, in ogni caso e soprattutto in qualità di femminuccia (non siamo capaci di stare zitte, noi), esprimermi.
"Ciccio, sai che non ho la solita paura che vada a finire a schifìo?"
"Neppure io." Ridacchia e poi aggiunge: "Mamma, lo sai che il Toro non vince al Dall'Ara dal 1980?"
"Sì, lo so. Io odio il 1980."
"Perché?" Mi chiede e poi dice: "Oh... scusa... ogni tanto dimentico che per te è l'Anno dei Morti..."
"Già."
Mi fa tenerezza che usi i nomi strani che talvolta appioppo alle cose, agli eventi, alle azioni, agli anni.
Guardo la partita e col pensiero vado indietro nel tempo, lontano lontano lontano, fino ad arrivare all'Anno dei Morti.
Il Toro vinceva a Bologna, nel 1980, e tutto doveva ancora accadere: Ian Curtis, John Bonham, John Lennon. E pure Peter Sellers! Che strage.
Il Toro vinceva a Bologna, nel 1980, e il 1980 non era ancora l'Anno dei Morti.
L'Anno dei Morti.
Eccheppalle i pensieri tristi: meglio concentrarmi sulla partita, va'...
Finisce la partita.
Il Toro vince.
Madre e figlio improvvisano una danza scoordinata.
C'è pace nei cuori: viva viva, trallalà.
C'è pace nei cuori fino a che egli, il di me figlio, dice la cosa che non va detta: "Mamma... pensa come sarebbe bello se vincessimo il derby..."
I miei capelli sembrano preda dell'elettrostaticità, ma dissimulo con nonchalance il dolore che agguanta il quarto e anche il terzo chakra (cuore e stomaco, insomma) e gli dico: "Eh... chi lo sa, tesoro...", mentre penso: "Ma non potevi startene zitto, moccioso?"
Vabbe'.
Poi cala la sera, si avvicina l'Equinozio, io guardo il cielo dalla finestra, con ieratico fare contemplativo.
Mi si avvicina e mi prende a braccetto.
"Sai, mamma, forse ho sbagliato a parlare del derby oggi... hai fatto una faccia!" Mi dice.
"Ma no, ciccio... stai tranquillo... è solo che prima di pensare al derby sarebbe più opportuno pensare al Verona, no?"
"Effettivamente..."
"Sei sicuro di volere venire a vedere la partita contro il Verona anche se è infrasettimanale?"
"Certo!"
"Sei un pazzo... proprio come la tua mamma... non avrei potuto immaginarti migliore di ciò che stai diventando, sai?"
Mi abbraccia forte e, per un breve attimo, mi sento sollevata dal peso di avergli regalato la fede Granata oltre alle lentiggini e ai capelli scompigliati.
Non avrei potuto immaginarlo migliore di ciò che sta diventando e non avrei potuto immaginare che sarebbe diventato uno dei miei Compagni di Stadio... da Madre a Figlio: FORZA TORO.
E ora avanti verso mercoledì sera.
Oggi ho iniziato una Zeppathon per cui non dedico nulla a nessuno, se non la massima attenzione a ciò che sto ascoltando nel momento in cui lo sto ascoltando.
Un sabato mattina come gli altri: pigrizia, indolenza e... starnuti.
Eccolo lì: il raffreddore settembrino, quello che ti taglia le gambe, che ti piomba fra capo e collo e i fazzoletti sono dall'altra parte della casa, che ti obnubila i pensieri, che "forse aveva ragione mia mamma, forse devo mettere la canottiera".
Mi coglie - inevitabile - il pensiero: questa sera giochiamo contro il Milan.
Tentando di scrollarmi il sonno dagli occhi e dal cerebro, faccio un rapido appello e poi sospiro sorridendo: sì, ci saremo tutti.
Io (io io io, ogni tanto amo mettermi per prima), Davide-figlio, Giulia, Davide-amico, la Stefi, la Nonna Olga, Sabrina, Samuele.
Davide e Samuele celebrano un loro rito personale prima della partita: camminano lenti e percorrono centinaia di metri e parlano parlano parlano. Ogni tanto Sabrina ed io ci chiediamo: "Dove sono i nostri figli?" e poi li vediamo, li guardiamo, ci sorridiamo.
"Ma che cos'avranno da dirsi?" Mi chiede sempre Sabrina.
"Quello che ci saremmo dette noi due se ci fossimo conosciute da ragazze, no?" Le rispondo.
Intanto procedono i minuti, iniziano gli "Entriamo?", ci avviamo verso i tornelli per poi fermarci ogni tot metri perché c'è qualcuno da salutare e abbracciare, abbiamo tutti voglia di ritrovarci dopo sperando di essere ancora così... così pronti.
Raffiche di starnuti.
Altro che pensare a Toro-Milan: qui bisogna correre ai ripari e inizia la caccia alla canottiera, al Vivin C e al miele.
E poi si va, sì, e ci teniamo per mano: Giulia in mezzo, Davide a destra, io a sinistra. Tre magliette Granata in fila per tre (e per forza: quelli eravamo) contro il resto del mondo, resto del mondo rappresentato da un simpaticone che dall'auto urla: "Forza Milan!" al nostro indirizzo. Vabbe', contento tu...
Saliamo sul bus, il bus che parte quasi subito, e mi siedo, guardo i miei figli, sorrido con espressione sognante e pure imbecille: che meraviglia...
Il mio bel sognare viene interrotto dal dirimpettaio di sedile che chiede: "Sta giocando il Toro?"
Inizialmente penso di non aver ben compreso la domanda e poi rispondo: "No, stiamo andando allo stadio."
"E contro chi gioca il Toro? No, perché io sono tifoso del Toro, sa? Speriamo che vinca il Toro, eh?" Dice affannato.
"Santa Dea, perché perché perché?" Penso, ma dico: "Milan."
"Ah. E quello sulla sua maglia, se non sbaglio, eh? Se non sbaglio è quello dell'auto, è Meroni. È Meroni?"
"No, è Capitan Valentino Mazzola."
"Ah. Mazzola. Come Sandro. Sandro Mazzola. Valentino Mazzola era il padre di Sandro Mazzola."
"Veramente Sandro era il figlio di Valentino, ma sono punti di vista."
"Io ho visto giocare Sandro Mazzola, me lo ricordo bene. E ho visto anche Rivera!"
"Echissenefrega, zio cane!" Penso, ma dico: "Pure io... uh, mi perdoni..." Prendo in mano il cellulare e fingo - rob de mat daver davero! - di aver ricevuto una telefonata.
La 'telefonata' dura cinque minuti e il tipo si rifugia in uno splendido mutismo.
Dopo di che trovo il tempo per litigare con una truzza che pretende di scendere dal bus senza aver prenotato la fermata e per raccogliere le confidenze di una gentile signora di bell'aspetto.
Con 'sta faccia da prete che mi ritrovo alla gente pare venir spontaneo confidarmi le proprie pene: che fortuna.
"Per me è una sofferenza... io ero del Toro." Mi dice la gentile signora.
"Ah. E poi?" Rispondo, conoscendo già la risposta.
"E poi l'aereo è andato giù e bla bla bla e ho detto basta al Toro e bla bla bla e allora ho iniziato a tifare Milan e bla bla bla e a mio marito non interessa il calcio e bla bla bla" Blablablatera 'sta roba trita e ritrita sull'aereo che è andato già e sulla rinuncia al Toro e mi verrebbe voglia di darle una sberla in faccia al suono di un tonante: "Ma va a cagare, deficiente!", ma dobbiamo scendere dal bus: alleluja.
Se mi avessero dato un centesimo per ogni volta in cui ho sentito nominare a sproposito l'aereo che è andato giù, avrei già comprato il Toro.
Vabbe'.
Fine degli incontri strani prepartita, inizio degli incontri prepartita, gli incontri e basta.
Dopo un po' faccio la conta e ci sono proprio tutti.
Mi torna alla mente quella volta in cui ero a tavola con tutta la mia famiglia e Giulia, avrà avuto poco meno di un anno, era seduta a capotavola nel seggiolone. Ci aveva guardati tutti con attenzione, uno per volta: suo padre, mia mamma, la cuginetta, la zia, mio papà, il cuginetto, mio fratello, suo fratello, me. E poi aveva fatto un sospiro grande ed un sorriso.
Io non sono a capotavola, non sono su un seggiolone, ma anche io li guardo tutti: Sabrina, Samu, Gaia, Davide-figlio, Davide-amico, la Stefi, nonna Olga, gli altri. Li guardo tutti, uno per uno, e poi faccio un sospiro grande ed un sorriso.
Prima della partita è tutto bello.
Durante la partita è quasi tutto bello, cioè: è tutto bello fino a un certo punto, poi la merda trionfa.
Alla fine della partita non sospiro né sorrido, ma smoccolo.
Un sabato sera come gli altri: sorrisi e bestemmie.
Il raffreddore? Passato.
E allora perché tiro su con il naso? Boh, sarà un po' di allergia alle sere di fine estate.
E perché stringo i pugni fino a ficcare le unghie nei palmi delle mani? Chissà... ho pensieri che si amMASSAno e il disgusto che sale.
Un po' di zucchero per noi MAI, eh?
Eccheccazzo.
Oggi scelgo "She Loves You" (The Beatles, 1963) perché lei ti ama e perché lei sono io e tu sei il Toro e a volte lei vorrebbe che l'amore fosse più spensierato...
... ma d'altra parte se l'amore fosse diverso lei andrebbe a cercarlo fino a trovarlo così, proprio così com'è. Dedico "She Loves You" alla spensieratezza che, comunque, ci ha avvolti e scaldati e confortati fino a quando siamo stati sul due a zero. Poi è stata solo una massa (sic) di merda, l'ennesima.
Ho già tolto i vinili dagli scaffali, li ho messi negli scatoloni imbottiti: non vorrei mai che si facessero male, ho staccato le foto dalle pareti, ho tolto le tende granata dai finestroni (cavoli, non mi ero mai accorta che fossero così grandi...) e dal lucernario, due amici mi hanno aiutata a rimuovere il Pentacolo dal centro del pavimento.
Devo solo impacchettare il bollitore e le mugs ed è fatta: volterò pagina.
Volterò pagina per l'ennesima volta.
Con un dolore a livello di muscolo cardiaco che fatico a contenere e, al contempo, un senso di sollievo che non ricordavo mi appartenesse, ma nonostante tutto prevale il senso di 'lutto' che accompagna tutti gli addii.
Mi guardo intorno: le pareti e gli scaffali vuoti e le finestre da cui entra la luce molesta parlano di me al passato, non riesco a trattenere un sospiro, che è quasi un gemito.
"Dea... mi sembra di essere ad una partita del Toraaaaaaaaaaaaaaaaaaah!" Grido sobbalzando: qualcuno o qualcosa - un'entità particolarmente maligna, forse? - mi si è posata su una clavicola.
Mi volto: è Sagliets e mi ha appena dato una pacca amichevole su una spalla.
"Ciccio... che cosa fai qui? E perché diavolo sei entrato così di soppiatto? Mi hai fatto prendere un colpo..."
"Ma smettila, befana... con tutte le creature dell'Aldilà e di altri Universi che ho visto passare da queste parti, non posso averti spaventata..."
"Hai ragione, ma..."
"Ma?"
"Ma mi sento vulnerabile, SONO vulnerabile: tutta questa luce mi abbaglia e non riesco a concentrarmi come dovrei..." Ho gli occhi pieni di lacrime, ma crepa se ne lascerò fuggire una: sono una dura, io.
"Tsk... sei sicura di aver fatto la scelta giusta, Silvietta?"
"Sono sicura di aver fatto una scelta, Mauretti... quante volte ti ho detto di lasciar da parte gli aggettivi?"
"Mi mancherai."
"Lo so."
"Vuoi smetterla?"
"Eh?"
"No, niente ciuppa... ti sto chiedendo solo perché non la smetti."
"Di fare che cosa, sant'uomo?"
"Di torturarti. Di reggere il mondo sulle tue spalle, Jude. Di essere così rigida."
"Non so essere diversa da come sono..."
"Balle... ormai ti conosco da troppo tempo, Silvietta... continui a rimanere un mistero per certi versi, ma per altri... be', grazie per avermi fatto conoscere parte di te..."
"Ou, guarda che sono ancora viva... sembra che tu stia recitando l'orazione funebre durante l'estremo saluto a me medesima... a proposito: niente fiori, né opere di bene, mi raccomando..."
"Ma quanto sei scema..."
"Scema io? Be'... quanto basta per sopravvivere..."
"Non fare la tragica, ora, dai. Ho sempre ammirato la tua vitalità e il tuo spirito di reazione."
"Davvero? Grazie..."
"Molliamola lì, però... hai voglia di farmi un ultimo tea?"
"Volentieri."
Metto su il bollitore, dopo pochi minuti, durante i quali rimaniamo in silenzio, fischia; verso l'acqua nelle mugs, intingo le bustine di Earl Grey, aspettiamo il giusto, ci sediamo per terra a gambe incrociate a sorseggiare la magica bevanda che ogni magone cura.
Dalle finestre vedo una piccola falce di Luna, è quasi impercettibile.
"Guardala, Sagliets: non è bellissima?"
"Prometti che non ci perderemo di vista?"
"Solo se prometti che ti ricorderai di me finché sarò viva, perché quando sarò morta... sarò morta e non saprò di essere morta. Quando sarò morta non saprò più nulla. Non saprò né il bene né il male. Non saprò neppure il Toro. Non saprò i Led Zeppelin. Non saprò. Non sarò. E non essere è piuttosto impegnativo. Tanto da morti quanto da vivi."
"Uh, che allegria..."
"Embe'? Sono una creatura delle tenebre, ciccio, che cosa ci posso fare?"
"Ormai nulla, megera..."
Non riusciamo neppure a scherzare.
Mi sento un po' in colpa nei suoi confronti: è stato lui che mi ha spinta a scrivere, è lui che mi ha aiutato a superare la mia naturale (e spesso non creduta) timidezza, è lui che... Sagliets è il mio Mentore. All'inizio Mauro mi chiamava Tamarindore, quando lo chiamavo Mentore: che scemo.
Mi alzo faticosamente, il mio quasi mezzo secolo rimane incagliato nelle ginocchia, ma poco per volta risorgo dal pavimento.
"Andiamo, Sagliets: mi aiuti a chiudere la porta?"
"No, non ti aiuto, però ti accompagno."
Ci dirigiamo per l'ultima volta verso la porta del mio santa sanctorum, l'apriamo insieme.
Mi volto per un ultimo sguardo al mio antro e inspiro a fondo.
Sto per chiudere la porta ma... "Silvia, non stai dimenticando qualcosa?"
"Non credo... domani verranno i ragazzi a prendere i miei scatoloni, ho radunato tutto..."
"Hai dimenticato il bollitore e le mugs..."
"Dimenticate? No, io non dimentico mai nulla, lo sai... te li regalo: bollitore, mugs, bustine di tea."
"Ma... perché?"
"Per non essere dimenticata. E anche perché, magari, è la volta buona che impari a fare un tea decente, capra."
"Anche io ti voglio bene, megera."
Ci abbracciamo forte, come quelle rare volte in cui ci è accaduto di fare dopo una vittoria del Toro (rarità dipendente dal Toro, ça va sans dire), usciamo e chiudiamo la porta.
"Che cosa farai adesso, Silvietta?"
"Boh, continuerò a fare quello che so fare: suonare la chitarra, curare i mali delle anime altrui, scrivere di Toro."
"Continuerai a scrivere di Toro?"
"Sì."
"A presto, allora."
"Sì. Grazie, Mentore."
"Grazie a te, Tamarindore."
Ogni tanto intraprendo nuovi viaggi. Guardo indietro e mi accomodo nella gratitudine, la mia gratitudine verso chi ha creduto in me e con me. Amo viaggiare in compagnia, ma è tempo - ora - di viaggiare da sola. Forse sola rimarrò per sempre, ma PER SEMPRE è anche il mio Amore per il Toro. Io mi chiamo Silvia e sono del Toro, il resto è ancora tutto da scrivere. Il numero di occhi che leggeranno non ha rilevanza, non può averne quando sento continuamente intorno a me il battito di tanti cuori che, come il mio, si rinnovano continuamente a dispetto delle stagioni amare da accantonare fra i ricordi. Questo è il mio nuovo viaggio e gli dedico "Thank You" (Led Zeppelin II, brano di chiusura del primo lato).
Dedico "Thank You" a chi è stato dimenticato e accantonato. Dedico "Thank You" a chi c'era sempre e a chi c'era a singhiozzo. Dedico "Thank You" a chi si è tolto dalle balle. Dedico "Thank You" al Toro, senza il quale non avrei mai avuto la necessaria spinta per guardare più a fondo negli occhi di chi vive il mio stesso Amore.
Sono arrivata nel mondo 'letteratura' Granata in modo del tutto casuale poco più di cinque anni fa, ma dal momento che il Caso non esiste... non aggiungo altre farneticazioni oltre a quelle che, nello scorso lustro, ho condiviso in rete.
Ho avuto la fortuna e l'onore di essere stata ospitata su pagine ben più illustri di questa per parlare del Toro, del Toro secondo me, e sono colma di gratitudine.
Quando fortuna ed onore sono diventati onere, ho scelto di rifugiarmi in una casa tutta mia: questa qui.
Siate i benvenuti.
Non so con quale cadenza pubblicherò, so che continuerò a condividere.
Per chi volesse far parte della condivisione... la mia prima pubblicazione è prevista per giovedì 19 settembre alle 13:13.
Era una strada stretta, sinuosa come un serpente, in discesa, da un lato la montagna, dall’altro un dirupo, in fondo alla strada c’era un faro e quello era il nostro obiettivo.
Ne avevamo già visti alcuni e li avevamo raggiunti agevolmente, ma quello, quello più che un faro sembrava la fine del mondo, quando il mondo non era rotondo bensì piatto e, giunti ai bordi del disco, non avremmo potuto fare altro che precipitare giù.
Il mio compagno di viaggio soffriva di vertigini, ne soffriva tanto, eppure ogni faro era una conquista, ogni faro era un puntino e, tracciando la linea che univa tutti quei puntini, si andava creando un ghirigoro, un sigillo, un simbolo che avrebbe dato ulteriore forma visiva al senso del viaggio.
Era una strada stretta, sinuosa come un serpente.
Parcheggiata l’auto, avevamo fatto fatica ad aprire le portiere per il vento forte, quel vento che avremmo dovuto immaginare così forte vedendo le piante cresciute piegate non per DNA ma per fenomeni atmosferici, quel vento che non potevamo comunque immaginare così: portava via i suoni, sovrastava la nostra stessa esistenza.
Si era voltato a guardare la strada da cui eravamo arrivati e aveva detto: “Io non posso tornare indietro, non posso…” e si era accasciato con il volto fra le mani.
Poi aveva sollevato lo sguardo e si era messo a fissare la strada. “Non mi ero reso conto che fosse così stretta… se torniamo indietro precipiteremo, ci faremo male, non posso tornare indietro, non posso…”
Con un braccio gli cingevo le spalle, con l’altra mano gli accarezzavo il volto. “Allora, ascoltami… se siamo arrivati fino a qui, possiamo anche fare il percorso in senso inverso. La strada è stretta, ma è sufficientemente larga per essere percorsa e di ciò ne hai già la prova…”
Continuava a guardare la strada, ma quello che vedeva era una strada che diventava sempre più stretta, anche se non era vero.
Non era vero, ma quella era la SUA verità.
Eravamo rimasti seduti a cercare di respirare quel vento che ci faceva oscillare e poi, dal piccolo parcheggio, era partita un’auto.
“Guardala. Sta salendo, la vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, ad entrambi i lati, per non cadere giù dal dirupo?”
“Ma… ma se arriva un’auto in senso opposto?”
Il Destino aveva voluto favorirci materializzando, appunto, un’auto che procedeva in senso contrario.
“Guardale. Una sta salendo e una sta scendendo: le vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, per entrambe le auto, per non cadere giù dal dirupo o sbattere contro la montagna?”
“Ma… sì, c’è spazio…”
Era caduto il silenzio, se silenzio si può definire il ruggito del vento di un promontorio alla fine del mondo.
“Sì, c’è spazio.” Avevo detto sorridendo.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Io? No.”
Non era vero, ma quella era la MIA verità.
Quella DOVEVA essere la mia verità.
Il Destino doveva volerci molto bene poiché, poco dopo, aveva fatto sì che un camper lasciasse il parcheggio.
“Uh, guarda quel camper: è gigantesco! Vediamo come se la cava su per la salita…”
Il mio compagno di viaggio, lasciandosi stringere forte le mani, aveva seguito il procedere del camper, mentre gli snocciolavo evidenze centrimetriche sulla possibile e comoda compresenza di due mezzi sulla carreggiata.
“Forse posso farcela…”
“Certo! Andiamo: è ora di lasciarti alle spalle questa paura, forza.”
Aveva raccolto nei polmoni quanta più aria possibile prima di mettere in moto l’auto, aveva guardato quella strada stretta, sinuosa come un serpente, ed era partito.
Lentamente.
Lentamente.
Una curva dopo l’altra.
Lentamente.
Fino ad arrivare in quel punto benedetto in cui la carreggiata si faceva più larga e con essa i respiri.
Improvvisamente accostava sulla destra, proprio a ridosso della parete rocciosa.
“Che cosa fai?” Gli avevo chiesto stupita.
“Voglio fotografare quello che mi sono lasciato alle spalle.” Mi aveva risposto quasi rinato.
Ci eravamo sorrisi e per una volta ero rimasta in auto, per una volta non avevo tirato fuori la macchina fotografica, per una volta ero rimasta a guardare, solo a guardare.
Avevamo proseguito il viaggio in compagnia del ricordo di due verità non assolute, che però erano state le nostre verità e ci avevano permesso, appunto, di continuare ad accumulare chilometri e immagini e sensazioni e esperienze.
Il giorno dopo avevamo visitato un altro faro, più accessibile di quello precedente.
Dopo aver scattato decine di foto ero rimasta a fissare il vuoto, le mani appoggiate su un basso parapetto di pietre e cemento.
Il mio compagno di viaggio si era avvicinato e mi aveva toccato una spalla dicendomi: “Hey… dove sei?”
Mi capitava spesso - e mi capita tuttora - di andare ‘altrove’ e di avere bisogno che qualcuno mi richiamasse alla realtà.
“Oh… sono qui, sono qui… solo che… ti ho mai detto di essere attratta dal vuoto?”
Gli si erano rizzati i capelli in testa. “In che senso?”
“Nel senso di essere attratta dal vuoto, né più né meno.”
“Allontanati da lì, allora, vieni…” Cingendomi i fianchi mi aveva allontanata da quel parapetto così invitante per via della sua minima altezza. “Non me lo avevi mai detto…”
“Te l’ho detto adesso.” Avevo risposto sorridendo, ancora preda dell’eccitante vertigine che il vuoto da sempre esercita su di me.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Di nuovo?” Ero scoppiata a ridere. “Vedi… i momenti di estasi sono sempre più intensi degli eoni di paura e dunque… e dunque si potrebbe dire che non ho mai paura o, meglio, che preferisco fare come hai fatto tu ieri quando hai lasciato alle spalle la tua paura, mi sono spiegata?”
“Sì, ti sei spiegata, ma non avvicinarti più a nessun parapetto, OK?”
“Okay…”
Qualunque forma abbiano le verità individuali, anche quando tali verità fossero costruzioni della mente e non verità assolute, vengano rispettate e tenute in gran conto: la vera ricchezza è la differenza, non il quoziente della verità in sé, sia che si stia andando verso un faro per una strada impervia, sia che si stia per spiccare il volo da un dirupo, sia che si stia già pensando al derby.
Già.
Inizia settembre e il primo pensiero, per quest’anno, è quello.
Il secondo pensiero è: ho paura.
Il terzo pensiero è: ci fanno neri.
Il quarto pensiero è: non vedo l’ora.
Il quinto pensiero è: sei una masochista.
Il sesto pensiero è: no, sono una del Toro.
Poi i pensieri si confondono tra loro e decido di pensare al giorno dopo, quando tutto sarà compiuto.
Puff puff pant pant.
Ogni tanto mi tornano alla mente ricordi di viaggi lontani nel tempo.
Magari dimentico qualche bel panorama, ricordo sempre le emozioni.
Come? Non ho quasi parlato del Toro in questo ‘temino’? Forse sì e forse no: talvolta il pensiero devia verso altre strade.
Il pensiero ha deviato, solo il pensiero.
Il cuore no: lui non devia mai.
Amen.
Questa settimana tocca a “Guide Me Home” (dall’album ‘Barcelona’, 1988, Freddie Mercury & Montserrat Caballé).
Freddie, domani compi 67 anni: grazie per essere venuto su questo pianeta e per aver condiviso con noi grande parte della tua immensa anima. Non so perché insistano a dirti morto… forse si sta perdendo la comprensione della parola IMMORTALE (e non vale solo per te).
Digito il suo numero sul cellulare, squilli a profusione, finalmente risponde.
“Sì?”
“Saaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaglietssssssssssssssssss!”
“Gnaaaarleboffchecazz…”
“Sono tornata, vecchia ciarabattola!”
“Ma che ora è?”
“Le due del mattino!”
“Eeeeeeeeeeeeh?”
“Ciuppa. Le due del mattino, ciccio: il momento migliore per gli incantesimi!”
“Sei una bestia, strega, una bestia… non potevi aspettare un’ora più da Cristiani per chiamarmi, zio cane?!?!?”
“No: sono pagana. Com’è?”
“Ma vai a quel paese, disgraziata!”
Sagliets chiude la telefonata: che malmostoso.
Deve stare ancora rantolando sulla partita contro il Pescara, proprio come me, però… che antipatico. Gliela farò pagare.
Qualche anno fa
Lui - e non ha importanza chi sia, non ha proprio importanza - sta presentando il suo nuovo libro in una libreria nel centro della città. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché.
Entro esitante, non lo vedo, mi siedo, prendo appunti, faccio un giro, lo vedo: è laggiù! Mi avvicino in silenzio, mi piazzo alle sue spalle, lo chiamo, si volta, sorride, sorrido, ci prendiamo per il culo. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché.
Andavamo spesso allo stadio insieme, i momenti condivisi, condivisi come i lacrimogeni quella volta là, andavamo spesso allo stadio insieme.
Ci eravamo conosciuti in prima media, avevamo appena vinto lo Scudetto e quanto ci sentivamo fighi, quanto eravamo fighi, quanto già capivamo il significato di parole che a undici anni dovrebbero essere legate solo ai giochi o alle ‘cose’ dei ‘grandi’: combattere, soffrire, godere.
E grandi lo eravamo diventati insieme e poi insieme ci eravamo mandati a stendere con freddezza e crudeltà. Poi, per caso, ci eravamo ritrovati e, con noi, ritrovati furono i gesti, gli scherzi, le prese in giro pesanti, il Toro.
Lui sta presentando il suo nuovo libro in una libreria nel centro della città. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché. Chissà perché… perché ci eravamo mandati a stendere, sic et simpliciter.
Sorride, sorrido e guardo oltre le sue spalle.
La vedo: cazzo, è lei.
“Scusami, scusami… vado a salutare Laura!”
Lui rimane impietrito e ride sotto i baffi. Io so che cosa sta pensando, io so che sta pensando che sono sempre stata così, io so che anche lui è appena tornato a casa ed è anche tornato un po’ bambino, proprio come me.
Vado da Laura e ci abbracciamo. Non ci vediamo da troppi anni, chissà perché: non ci siamo mai mandate a stendere.
Abbracci, parole, sorrisi, il Toro, i libri, ma tu, ma lui, ma poi, ma quando, ma dai, ma sì: sì, non perdiamoci più.
Lui ci raggiunge e mi dice: “Non cagarmi, eh?” Sorride e poi va, va a presentare il suo libro.
Sono tanto orgogliosa di lui, tanto.
Lasciamolo da parte, non ha davvero importanza il suo nome, non in quel momento e neppure in questo: ormai è tornato nella mia vita, ormai sono tornata nella sua vita. Intanto ho ritrovato Laura: possiamo di nuovo camminare insieme.
Sul City Sightseeing preferisco le cuffiette dell’iPod a quelle della guida.
Il cellulare vibra, guardo il display: un SMS di Laura. Non voglio leggerlo, so già che cosa troverò scritto, ma non voglio, accidenti… la rapida lotta fra egocentrismo e amicizia si risolve rapidamente e apro quell’SMS che non vorrei leggere.
Il papà di Laura ha chiuso gli occhi, è andato dagli Invincibili, “è andato avanti” come scrive Laura stessa. Oddeaddeaddea, Lauretta mia…
Alla fine del giro con il bus, scendo e la chiamo. Le solite parole di circostanza, anche se spero che il mio affetto e la mia partecipazione arrivino fino al suo cuore lacerato.
Ridicolmente mi metto a piagnucolare, me ne vergogno nel momento stesso in cui accade, ma non posso farne a meno, non posso farne a meno perché - di nuovo egoisticamente ed egocentricamente - penso che un giorno capiterà anche a me di ricevere le stesse parole di consolazione ed è un pensiero intollerabile.
Mentre Laura mi chiede di non piangere, con una mano scaccio fisicamente via i cattivi pensieri, e la ringrazio: “Grazie, per avermelo fatto conoscere di nuovo là…”
Ottobre 1972
Oggi inizio la seconda elementare.
C’è una nuova bambina in classe: si chiama Laura. Chissà se è simpatica… ha la pelle olivastra come la mia e gli occhi grandi e scuri.
17 maggio 1976
Ci siamo abbracciati e abbiamo fatto chiasso per tutta la mattina: ieri abbiamo vinto lo Scudetto!
Laura, io e gli altri del Toro come noi.
Il Maestro ha dovuto richiamarci più di una volta, ma in fondo ha capito: è un gran Maestro.
Aprile 2010
Torneo di calcio fra Amici/Fratelli al Fila: vado con Giulia, là troverò Laura.
Ci sediamo sui gradini, chiacchieriamo. “Tra un po’ dovrebbero arrivare i miei” Dice Laura.
Sento una strana emozione dentro di me, come un fuoco che non si sente degno di risplendere.
“Eccoli.” Mi dice con la voce dolce che è la stessa voce dolce di quando eravamo bambine, che è la stessa voce dolce con cui condivide con me passioni, dolori, risate, vita. La mia Lauretta.
Ci alziamo, andiamo loro incontro.
Ricordo bene la mamma di Laura, la ricordo bene.
Guardo suo padre e favello: “Mi dispiace, mi perdoni… non mi ricordo di lei: facciamo finta che sia la prima volta in cui ci incontriamo. Sono sempre stata un po’ stordita, sa?”
Gli stringo la mano e poi… e poi lo guardo bene negli occhi.
Cazzo, sì: mi ricordo di lui. Mi ricordo di quegli occhi, mi ricordo di quegli occhi in cui brucia il fuoco di fronte al quale il mio diventa un’esile fiammella.
“Aspetti… sì: mi ricordo di lei! Cavoli, sì!”
Lo guardo e davanti a me lo rivedo più giovane, con la schiena più dritta, la pelle più distesa.
L’orgoglio è rimasto immutato.
Laura ed io ci abbracciamo in lacrime e sua mamma ci sgrida bonariamente: “Sempre a piangere, queste due…” Sorride. Probabilmente anche lei ci rivede com’eravamo più di trent’anni prima.
Sono scossa da questo incontro, sono al cospetto di un Gigante, ho appena guardato negli occhi una delle tante persone che hanno fatto la storia del Toro senza urlare, senza strepitare, senza rivendicare un posto al sole, in silenzio, con le mani e il cuore a disposizione dell’Idea, con il cuore sempre alla ricerca di nuovi ostacoli da superare.
16 agosto 2013
“Grazie, per avermelo fatto conoscere di nuovo là…” Dico a Laura. Segue un “Ti voglio bene” e chiudiamo la telefonata.
Riposa in pace, Franco: hai messo al mondo una bella creatura, sai?
Punto e a capo
Toro-Sassuolo, sì.
Soprattutto in Maratona.
Soprattutto con gli Amici.
Soprattutto con i miei figli.
Soprattutto la prima Maratona di Giulia.
Giulia che si bullava con il fratello, il giorno prima della partita.
Giulia - Davide, tu in quali settori dello stadio sei già stato?
Davide - In Primavera e in Maratona.
Giulia - Questa sera vengo anche io in Maratona e sono già stata in Primavera, nei distinti e in tribuna, quindi sono stata in più settori di te!
Davide - [tace]
Giulia che ha paura dei suoni forti ed era un po’ preoccupata: “Mamma, c’è tanto rumore in Maratona?” e poi non è stata zitta un momento.
Giulia che ha pianto poco prima della partita “perché mi manca Rolando…”
Giulia che ha detto: “Speriamo di vincere così li vedo saltare dalla parte giusta!”
Giulia che ha pianto poco dopo la fine della partita perché li ha visti saltare dalla parte giusta e “... stai tranquilla, mamma, questa volta piango perché sono felice…”
E Davide? Un Uomo, un Uomo in miniatura (ma nemmeno troppo: non riesco ad abituarmi al fatto che mi abbia superato in altezza… non che ci volesse molto, eh?).
E io? Aaaaaaaah, ero gasatissima.
C’erano gli Amici, no? Paolo il Maestro di Musica, Davide con Maria ed Emanuela, la Stefi, la Nonna Olga (novant’anni, cinque mesi e due giorni!), Diego ai distinti che si stampava contro la parete divisoria in vetro per salutare e per un nanosecondo pensavo: “Hey! L’Uomo Ragno!”, Chris dall’Inghilterra, la pioggia… ah, la pioggia: la mia fedele Musa… dopo un po’ mi era venuta un po’ a noia, troppa ispirazione tutta d’un colpo rimane sullo stomaco pure a me, che sono vorace di emozioni… però la pioggia, la pioggia, la pioggia…
C’era anche un due aste speciale, sorretto da due creature speciali, speciali per me, speciali perché sì… i miei nipoti.
Quanto Amore, quanto!
Guardavo la partita e intanto pensavo al moltiplicarsi dell’Amore, dell’Amore per il Toro, pensavo alle persone che ho amato tanto e che amo tuttora anche se non ci sono più, guardavo i miei figli e vedevo da lontano il due aste dei miei nipoti: la Quarta Generazione di Tifosi Granata in Famiglia.
Uh, come mi piacciono le lettere maiuscole, sì.
Una volta venivamo allo stadio in quattro (mamma, papà, fratello, io), a volte in cinque (si aggiungeva il nonno), ieri sera eravamo in sei: mio fratello, io, i nostri quattro figli.
Forse siamo pirla, forse non lo so, forse non mi interessa, forse ero felice.
Forse?
Sì, la Felicità ha un volto e quel volto è fatto dalla mia Famiglia di sangue e dalla mia Famiglia di tifo.
Nessuno spazio per i cattivi pensieri, solo emozioni: il mio nutrimento.
Passo in redazione a ritirare la posta. Nella cassetta delle lamentele (sì, siamo piuttosto organizzati) c’è poca roba: smaltisco il tutto rapidamente e me lo getto alle spalle. La cassetta della concordia (sì, siamo anche piuttosto creativi) è bella e paciosa: quasi quasi mi concedo una coccola prima di imbracciare la chitarra. Leggo qualche foglio, mentre l’acqua si scalda nel bollitore, intanto arriva il mio tormento personale.
“Silvia!”
“Sono io, Sagliets, sì: sono io. E sono nel mio ufficio: mai sentito parlare di bussare?”
“Quanto sei noiosa… posso leggerti una cosa?”
“Aspetta, prima preparo il tea.”
Verso l’acqua bollente nelle mugs che mi ha portato Paolo da Londra e da Barcellona, intingo per tre minuti due bustine di Earl Grey.
“Procedi, Sagliets…”
“Allora…”
“Aspetta, metto su un po’ di musica: che cosa ne dici di sentire ‘NEVAEH OT YAWRIATS’ in loop?!
“Eeeeh?”
“Ciuppa, ciccio. Ho solo detto ‘STAIRWAY TO HEAVEN’ al contrario… alcuni dicono che ascoltarla in senso opposto al normale permetta di udire messaggi indubbiamente satanici.”
“Sei raccapricciante… ma che senso ha?!?”
“Nessuno, proprio nessuno. In realtà trovo pietoso che qualcuno abbia anche solo pensato si ascoltare ‘Stairway To Heaven’ al contrario… non era sufficiente tutta quella bellezza lì? Bisognava per forza lordarla?”
“La gggente è strana, Silvietta…”
“Già, Mauretti…” Sospiro e mi massaggio il collo: è da quando mi sono svegliata che ho un po’ di fastidio.
“C’è qualcosa che non va, collega?”
“Non saprei bene come spiegare… non è un vero e proprio torcicollo… è come se sentissi qualcosa che sfrega qui… uh, che noia…”
“Ciccia…”
“Yes?”
“Hai il colletto tutto storto, aspetta…” Delicatamente mi sistema la camicia e… magia: il fastidio scompare!
“Grazie, Sagliets! Anche tu ci hai i poteri, a quanto pare! O forse ho solo bisogno di una badante…”
“Magari avessi i poteri… è solo che tu vai sempre in giro tutta sgarruppata… come cavolo si fa a stare con mezzo colletto su e mezzo colletto giù senza accorgersene? Sarai anche una strega ma quando si tratta di fare cose semplici ti perdi in un bicchiere d’acqua, stordita!” Dice sorridendo.
Alzo le spalle e sorrido pure io. “Boh… è che i colletti sono proprio l’ultima delle mie preoccupazioni, a dire il vero…”
Finisco di bere il mio tea, imbraccio la chitarra e sia fatta la nostra volontà.
O la nostra pace.
O quel che l’è.
Forza Toro.
Questa settimana tocca a “In the Evening” (brano di apertura di “In Through the Out Door”, ultimo - sigh - album in studio dei Led Zeppelin, 1979).
Le note iniziali sono lugubri come certi momenti oscuri che noi Granata conosciamo bene e contestualmente mettono le ali, proprio come il Toro che, anche se fa girare le gonadi, rende felici, magari solo per qualche attimo. Non so perché ma, da qualche giorno, mi rimbombano in testa le parole di John Milton: “Meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso”... e non posso fare a meno di augurarmi/ci un ottimo regno.
RINGRAZIAMENTI A:
- Nicolò Campo per avermi concesso di utilizzare la foto da lui scattata domenica sera.
- I miei nipoti Agostina e Pietro per aver avuto l'idea di realizzare quel due aste.
- Mio fratello e mia cognata per aver messo al mondo i suddetti.