mercoledì 27 marzo 2013

Il Piccolo e il Grande

Orizzonte variabile


Primo caffè della giornata, discorsi casuali al bar.
“Hey, hai sentito in tivvù? L’aereo degli Azzurri è stato colpito da un fulmine in fase di atterraggio... chissà che paura...”
“E be’... noi Granata, poi, siamo piuttosto sensibili quando si parla di aerei...”
“Ma tu quanti anni avevi quando l’aereo del Torino si è schiantato a Superga?”
Trasalisco.
So di non essere in forma... ‘sti maledetti capelli bianchi, poi... rughe? La giusta quantità... mi guardo allo specchio. No, senza dubbio sono normalmente quasiquarantottenne.
“Meno sedici, cara,” le rispondo con nonchalance.
Trasalisce.
Sa di avere fatto la gaffe del secolo... ‘sto maledetto Toro, poi... le date? Non se le ricorda tutte... guarda il suo compagno. Sì, è diventata del Toro per amore e si rende conto di dover/voler imparare ancora tanto.

“Ma tu quanti anni avevi quando l’aereo del Torino si è schiantato a Superga?”
Te lo dico io quanti anni avevo.
Ne avevo davvero meno sedici.
Mamma e papà ne avevano tredici a testa, l’età che ha adesso mio figlio, e non sapevano ancora che sarebbero stati la mia mamma e il mio papà.
Quanta solitudine in quei piccoli cuori.
Solitudine improvvisa.

Mi sveglio per il dolore alle spalle. Socchiudo gli occhi e non cambia nulla: buio completo. Capisco di non essere a casa. Ma dove sono?
Oddea... il peggiore dei miei incubi si è realizzato: sono stata sepolta viva.
No... non doveva finire così... non mi ricordo nulla... come diavolo è andata?... non è giusto... mia Dea, che silenzio... mia Dea, portami via, portami via subito...
Nonostante il panico cerco di razionalizzare.
Sono dentro alla mia tomba, evidentemente. C’è aria in abbondanza. C’è tempo. C’è... spazio. Dove cavolo mi hanno sepolta? Questa non è una bara... sta a vedere che... sta a vedere che mi hanno buttata in un fosso, in una grotta, in una cantina... maccheccazzo... eppure... eppure no. Le mie braccia sono appoggiate su... un ripiano di legno. Sono seduta. Il cellulare. Dove cavolo è? Non ce l’ho. Male. Bene. Boh. Dei passi. C’è qualcuno. C’è qualcuno! Apro la bocca per chiedere soccorso e... sono totalmente afona. Che sfiga. Non faccio in tempo a pensare a strategie di fuga ed è luce. Accecante.
Quando le retine riacquistano la normale operatività, capisco di essere viva (pheeew), di essermi addormentata sulla scrivania in redazione (ero stremata: tra Toro, lavoro, due figli due, la chitarra, gli incantesimi... ogni tanto la vita è faticosa, eh?) e di essere molto incazzata con Sagliets, che brandisce una spada laser che manco Dart Fener e che ulula sconclusionatezze.
“....................!” urlo senza produrre suoni.
“Hai visto che bell’aggeggio ho trovato? Me l’ha regalato un signore tutto vestito di nero: che gentile.”
Afferro un foglio, intingo la penna nel calamaio, scrivo una parola, una sola, mostro il foglio a Sagliets. La parola è PUCIU.
“Puciu? Oh, scusami... stavi dormendo come un puciu... scusami... me ne vado...”
Fulminandolo con gli occhi, con una mano gli faccio segno di aspettare.
Guardo il foglio, bestemmio - in silenzio, maledizione - , correggo la scritta, gliela mostro.
“PICIU. Ma perché, caramellina al cianuro... che cos’ho fatto di tanto brutto?”

Quel gagno stava per passare un brutto momento.
Ero andata a prendere mia figlia più presto del solito: dovevo gestire lo sciopero dei mezzi pubblici, il ritorno a casa e il raffreddore balordo.
Sulla soglia dell’aula mi si avvicina un soldo di cacio con i capelli biondi e gli occhi verdi e, sorridendo malignamente, esclama: “Forza giuve!”
“OK.” Gli rispondo, mentre i demoni che solitamente mi accompagnano si siedono con ampi canestri colmi di pop corn fra gli artigli.
Insiste.
“Forza giuve, forza giuve, forza giuve!”
“OK.” Gli rispondo nuovamente.
“La giuve è prima in classifica, il Toro è ultimo!”
Respiro a fondo. I demoni si danno di gomito.
“Stai dicendo una cosa sbagliata, ciccio.”
“Ah sì? E dove siete in classifica?”
“Più o meno a metà. Non leggi i giornali?”
“No!”
“La tua compagna sì, invece... viva le differenze.” Indico mia figlia: sta raccogliendo libri e quaderni senza rompere i maroni a nessuno ed è... lo dico dopo.
Insiste.
Il piccolo gobbo rompimaroni insiste.
E io sono sempre più Zen.
“Quelli del Toro dovrebbero buttarli tutti dal terzo piano!”
“Nel tuo sussidiario manca la sezione dedicata alla grammatica italiana, eh?” Penso, ma dico: “Temo che tu abbia detto una cosa molto brutta, sai?”
“Così si spiaccicheranno tutti!”
“Spiaccicherebbero, per amor di correttezza.”
Intanto si avvicina un altro compagno di scuola. Lo conosco bene: gioca a calcio. È della giuve pure lui, ma gioca nel Toro. Si rivolge all’altro gagno. “E smettila...” Gli dice e io aggiungo: “Ascolta: tu conosci la differenza fra vincere e partecipare?”
A volte mi darei delle martellate sulle ginocchia pur di non favellare, eppure è più forte di me: mi piace farmi male, evidentemente.
Mi soffermo un momento a guardare ‘sti due gagni: il molesto biondino con gli occhi verdi, il pacato morettino con gli occhi (grandissimi!) neri.
Il biondino esclama con sfrontatezza: “Vincere! Conta solo vincere! Voi non siete capaci!”
Lo dico? Lo dico: mi prudono le mani.
Interviene il morettino: “Sbagli. Ricordati che per ogni volta in cui vinci, la volta dopo potresti perdere: non dimenticarlo mai.” Aria pulita, respiro aria pulita. Ci sorridiamo a vicenda.
Il biondino non sa più che cosa dire e stringe i pugni.
Guardo mia figlia: sta raccogliendo libri e quaderni senza rompere i maroni a nessuno ed è... così diversa da ‘sto soldo di cacio.
Indossa il giubbottino del Toro, sul davanzale alle sue spalle è appoggiato il suo (una volta era mio...) cappellino del Toro.
Senza rompere i maroni a nessuno.
Finisce di raccogliere le sue cose, indossa la giacca e il cappellino, saluta la maestra e i compagni, ci prendiamo per mano e andiamo incontro ad un pomeriggio tutto per noi.
Per strada le chiedo: “Come si chiama quel biondino rompicispole?”
“Enzo.”
“È sempre così tignoso?”
“Lascia perdere, mamma... è un caso disperato...”
“OK, tata... dimmi una cosa: ti ha mai rotto le scatole perché hai sempre qualcosa di Granata addosso?”
“No... cioè... una volta ci ha provato. E poi non ci ha provato più.”
Mi sorride con la faccia furba e preferisco non indagare ulteriormente: la ragazza sa difendersi, la ragazza sa, la ragazza è del Toro, la ragazza è del Toro sempre, la ragazza è così del Toro sia che si vinca sia che si perda e lasciamo le rime a qualcun altro più bravo di me.

Nonostante le mie doti mimiche non siano eccelse, Sagliets capisce di dover levare il disturbo, non prima di aver acceso le quattro candele Granata del candelabro sulla mia scrivania.
Faccio un bel respiro: che bello essere viva!
Mentre il PC arranca per attivarsi, sgranchisco le zampe e butto gli occhi sulle foto appese al muro: Capitan Valentino, Lulù, Gigi, Tiziana, Capitan Giorgio, Joe, John Lennon, i miei nonni, Bonzo... non li dimentico mai, sono sempre lì, foto o non foto, sono sempre lì ad appesantire, rendendolo leggero, il mio cuore.
Il PC è vivo e lotta con noi, a giudicar dai suoni che emette... vediamo un po’...
Sagliets scrive - Ho lasciato da te il mio cilicio?
LaSilvia scrive - Per tutti i diavoli (hip hip urrà!)... quale cilicio? Cerca di non essere troppo complicato oggi... non ce la posso fare: sono appena morta e risorta...
Sagliets scrive - Il cilicio, Signora delle Tenebre... non hai letto la comunicazione?
LaSilvia scrive - No. Quale? Dimmi la verità: oggi vuoi il mio male, confessa.
Sagliets scrive - Smettila... non lo trovo. Non lo trovo più. Il mio cilicio. Quello che uso sempre dopo la seconda partita consecutiva in casa, la seconda partita consecutiva, quella che perdiamo sempre...
LaSilvia scrive - Ah, quello... ho fatto un rapido volo fino al Comunale e l’ho lasciato sul tuo seggiolino, stolto... a me sembrava un gatto a nove code, comunque...
Sagliets scrive - L’ho mascherato da felino OGM per non avere problemi.
LaSilvia scrive - Ehilà, che finezza! Comunque... di quale comunicazione parlavi?
Sagliets scrive - Oh be’... nessuna: volevo solo instillare il dubbio in te.
LaSilvia scrive - Lascia che recuperi le forze e poi ti instillo io...
Sagliets scrive - Bentornata, Sua Malignità!
LaSilvia scrive - Smettila con i convenevoli. Dunque ci sarai contro il Napoli, giusto?
Sagliets scrive - Ovviamente sì: non posso perdere un’occasione per soffrire.
LaSilvia scrive - Me too. Siamo un po’ dei tristoni, però...

Che tristezza la domenica senza la partita.
Che differenza dalla tristezza dello scorso anno quando la domenica non si giocava perché giocavamo il sabato.
Ci sono tristezze e tristezze... e forse senza tristezza non riusciamo ad essere contenti, non completamente.
Se mi volto a guardare la Vita percorsa fin qui, vedo molti momenti di tristezza e molti momenti di gioia.
Se mi volto a guardare i momenti di tristezza vissuti fin qui, vedo qualcosa di particolare, vedo una specie di nostalgia, una nostalgia che scalda il cuore, che non fa male, che rassicura, che fa capire il senso dell’orizzonte Granata.
È laggiù, quell’orizzonte, lo si può raggiungere... e poi spostare più in avanti.
Se il Toro fosse un numero, sarebbe un otto rovesciato.
Se il Toro fosse un sapore, sarebbe lo stesso dell’oceano e delle lacrime.
Se il Toro fosse un Amico, sarebbe quello che fa girare le gonadi ed anche quello che c’è quando è necessario che ci sia.
Se il Toro è così unico un motivo ci sarà... credo che il vero motivo sia nascosto al di là dell’orizzonte... vado a cercarlo, lo sposto più avanti e poi torno.



Questa settimana tocca a “I Put a Spell On You” di Screamin’ Jay Hawkins (“At Home With Screamin’ Jay Hawkins”, 1958). Verso la fine il testo recita: “Io ti amo comunque e non mi interessa se non mi vuoi: sono tuo proprio ora”... un modo come un altro per raggiungere l’orizzonte e spostarlo più in là.



Dedico “I Put a Spell On You” ai bambini del Toro, qualsiasi sia la loro età.